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Virtù

Pasti politicamente (s)corretti e paranoie (a)sociali. Virtù e vizi

Mangiando fuori con altre persone, ti sarà sicuramente capitata una situazione in cui ciascun commensale manifesta al ristoratore un’esigenza diversa, per ragioni di integrità fisica e/o morale. “Vorrei un’insalata di pesce senza mandorle – sono allergica!”; “Si possono avere gli spaghetti al ragù ma senza glutine e senza carne?”; “Questo pollo non è prodotto in stabilimenti industriali, vero?”; “C’è una cola local anziché la CocaCola?”

Immagina che i commensali siano i cittadini e il ristoratore lo Stato: ecco un fedele plastico mentale della società contemporanea, la cui core-mission è incaricarsi di soddisfare queste e altre richieste, assecondando le più disparate sensibilità ed esigendo che anche i cittadini facciano lo stesso l’uno con l’altro. Si tratta dell’estremizzazione di un processo di civilizzazione di lunga durata, che ha progressivamente raffinato e sofisticato gli usi e costumi, con lo scopo di rendere le persone capaci di convivere pacificamente e in un’ottica sempre più inclusiva – almeno idealmente.

Come per tutti i fenomeni sociali, virtù e vizi non solo marciano congiunti, ma rappresentano anche le due facce della stessa medaglia1. Le virtù stanno nel disporre di un ambiente sociale volto a proteggere da ogni potenziale discriminazione e offesa – materiali come simboliche: tutt* ci sentiamo in un safe space accogliente e piacevole. Puoi andare al ristorante con la fondata aspettativa di scegliere che cosa mangiare, senza essere né cacciata malamente dal locale né venir giudicata aliena, eccentrica, deviata o quant’altro.
I vizi stanno in un accrescimento – quantitativo come qualitativo – delle domande di attenzionetanto esponenziale da poter ingenerare un burn-out sociale: soddisfare tutte le aspettative si fa sempre più ostico e snervante, così che – paradossalmente – vengono meno le basi per edificare uno spazio genuinamente comune. Ospitare un cenone natalizio diventa quasi un’impresa, anche quando sono in ballo persone per cui si prova un sincero affetto e ci si farebbe in quattro: se ciascuno desidera o esige di mangiare una cosa diversa, addio pasto condiviso.

In nome delle virtù lotta chi intende smantellare una volta per tutte i vari sistemi di privilegi che governano le dinamiche sociali, mentre sui vizi insiste chi vuole difendere la libertà di espressione dagli attacchi del politicamente corretto. Troppo spesso, questi orientamenti si dipingono a vicenda come il male da eliminare: da un lato avremmo i “questa-è-una-microaggressione!”, rammolliti incapaci di prestare attenzione ai veri problemi sociali; dall’altro lato avremmo i “non-si-può-più-dire-niente!”, oppressori occupati a preservare la pseudo-libertà di offendere. Se non si pone freno a simile radicalizzazioni, si rischia però di scivolare verso due forme di attitudine paranoica opposte ma complementari, che potrebbero sinteticamente dirsi “di sinistra” e “di destra”2.

La prima è negativa, perché prevede un totale svuotamento del Sé: un’identità atrofica che si spoglia di ogni tratto potenzialmente offensivo con lo scopo di mostrarsi irreprensibili e inattaccabili. Tale neutralizzazione volta a ottenere la santità morale (il cosiddetto virtue signaling) fa tutt’uno con l’incessante lavoro di vigilanza e pulizia morali (il cosiddetto wokisme). Un ristorante che ambisce a un menu che non solo è onni-accessibile, ma non urta nemmeno nessun commensale.
La seconda è positiva, perché esibisce un Sé pieno, persino stracolmo: un’identità ipertrofica che abbraccia una visione netta del mondo e la afferma al di sopra di ogni cosa, vedendo e costruendo nemici da combattere ovunque. Qualsiasi forma di alterità va smascherata e riassorbita – se non annichilita (il cosiddetto complottismo). Un ristorante che non si smuove dalla propria cucina tradizionale e fa di ogni concorrente un nemico mandato dai poteri forti.

Chiaramente, questi due esiti sono ugualmente indesiderabili, innanzitutto perché finiscono per dimenticare entrambe che una certa soglia di “frizione” e “asimmetria” è consustanziale ai rapporti sociali, tra virtù e vizi. Per evitare tali derive pseudo-identitarie, non sembra esserci altra via che metterla meno sul personale – che è esattamente la precondizione per la vita associata. Dal primo lato, questo significa riconoscere che non ogni gesto distratto tradisce un desiderio di ferire, un abuso di potere o una cecità ideologica da denunciare e correggere o cancellare. Dal secondo lato, ciò invece vuol dire ammettere che l’espressione di (in)sofferenza non è sempre soltanto figlia di isteria o capriccio, anzi spesso rivela una condizione strutturale da non ignorare.

Indubbiamente, tutto ciò è più facile a dirsi che a farsi, ma sarebbe illusorio credere che convivere sia un compito semplice. In fondo, qualsiasi tavolata basta a mostrarlo.

 

NOTE
1. Seguo l’ottimo S. Flasspöhler, Sensibili. La suscettibilità moderna e i limiti dell’accettabile, Nottetempo, 2023.
2. Cfr. C. Bollas, L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, Cortina, 2018, pp. 173-191.
Photocredit Nadia Valko via Unsplash

Giacomo Pezzano

Radical Candor, concettofilo, post-ironico

Se avessi un motto, sarebbe qualcosa come: “non conoscere le idee, ma avere idee!”. Faccio il ricercatore all’Università di Torino e negli anni mi sono occupato soprattutto di antropologia filosofica, filosofia critica e ontologia, cercando di tenere insieme il rigore della ricerca e il mordente della comunicazione. Ho scritto – in ordine sparso – post, […]

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