Il cancro nell’immaginario collettivo, oltre che come ‘malattia grave’, è visto come ‘il male’ per antonomasia, un male inspiegabile che all’interno nasce e distrugge. A partire da questo I.Cavicchi e M.G.Sarobba nel libro Il cancro non è un carillon, si chiedono come si possa pensare di guarire da un’entità simbolica, che si può materializzare solo pronunciando il suo nome.
Il concetto di cancro non è mai puramente una definizione biologica, è anche la conseguenza delle teorie sulla cura, sulla persona, sul significato di malattia, sul genere di tutela da dare al malato.
A questo proposito viene sottolineato che, secondo diversi studi, oggi esiste un forte divario tra scienza e cultura, perché ai progressi scientifici non corrispondono altrettanti adeguamenti culturali, soprattutto dell’idea di cura. Quindi, mentre l’oncologia aggiorna continuamente le sue definizioni scientifiche, il suo sistema di conoscenza regredisce culturalmente, in quanto i ‘modi di fare oncologia’ rimangono invariati.
Oggi quindi, il problema più grande dell’oncologia consiste nel decidere cosa includere all’interno dei suoi concetti di cancro: se l’oncologia continuerà a considerare solo la natura di questo cancro, i suoi concetti resteranno culturalmente regressivi, se invece deciderà di allargarli, per poter personalizzare i trattamenti, allora, come afferma M.G.Sarobba, sarà in grado di «accrescere la sua pertinenza, e probabilmente sarà più efficace».
Da questo punto di vista quindi, l’idea scientifica oncologica secondo la quale questa malattia si configura “come un carillon”, quindi come un meccanismo biologico «che suona sempre la stessa musica» non vale, perché nella realtà il cancro non si comporta così. È un meccanismo biologico ma è anche dotato di una personalità e una varietà di espressioni. Quindi l’apparato delle conoscenze generali non basta a curare un determinato paziente, in quanto si tratta ogni volta di una specificità che deve essere affrontata.
Davanti alla singolarità oncologica il medico deve acquisire e modificare le proprie conoscenze, metodi e comportamenti. Tra singolarità e oncologo esiste infatti quella che i filosofi chiamano «relazione logica esplicativa», legata a un modello pragmatico del comportamento logico. Questo aspetto, nella ridefinizione dell’oncologia, si lega perfettamente a quello della personalizzazione dei trattamenti, che spesso dipende dalla capacità di questo oncologo di interpretare i concetti di cura.
In quest’ottica, il senso stesso del cancro è destinato a cambiare e rimanda ad una questione di mezzi disponibili, in quanto l’oncologia dovrebbe interpretare la sopravvivenza al cancro in termini di «possibilità condizionate» condizionata dalle misure di prevenzione sia individuali che generali. Si presenta un’idea nuova di effettualità legata alla qualità delle relazioni e della comunicazione. Le possibilità sostanziali quindi dipendono soprattutto dalle relazioni tra medico e malato e dalle condizioni etiche prevalenti.
Oggi la sopravvivenza del malato di cancro non è più analizzabile solo sotto il profilo dei mezzi terapeutici disponibili, ma anche sotto quello dei mezzi personali e relazionali che l’oncologo e il malato riescono a costruire. L’avvenire del malato di cancro dipende soprattutto dal tipo di relazione terapeutica che si costruisce e dalla capacità di individuare la singolarità sia dell’oncologo che del malato.
La relazione di aiuto prevede l’incontro tra due persone che sono costrette a trovare una posizione comune per realizzare una relazione che sia davvero di aiuto. Il medico è la persona che deve riuscire ad aiutare il paziente e che deve trovare il modo per far sì che il paziente stesso partecipi alla cura, trovando le strategie più efficaci.
Di conseguenza il paziente va accolto con tutte le contraddizioni emotive che porta in sé, perché il primo accorgimento che si può adottare in relazioni di aiuto è quello di chiedere al soggetto di collaborare alla cura e di renderlo consapevole, per aiutarlo ad entrare in relazione. L’obbiettivo della relazione di aiuto va quindi condiviso da entrambi, perché solo lavorando insieme si può raggiungere l’obiettivo.
In generale, i principali strumenti che possono essere utilizzati per la relazione d’aiuto sono l’osservazione, l’ascolto e l’empatia, per accogliere la persona dedicandole maggiori attenzioni, rispondendo alle sue richieste. Questo «mettersi al suo posto» rimanda ad un approccio relazionale che si avvicina al paziente cercando di sentire il suo mondo emotivo, tra coinvolgimento e distacco. L’utilizzo di questi mezzi permette di migliorare le proprie capacità di relazione e di adattarle ai diversi pazienti che incontra. L’individualità degli incontri, delle storie e delle relazioni permette al medico di rendere ogni volta la relazione unica e particolare, che considera i veri bisogni del paziente.
Questo tipo di relazione può essere considerata terapeutica perché permette al medico di oggi di migliorare il proprio atteggiamento di cura, perché oltre a basarsi sul rapporto con l’altro, tiene anche conto delle caratteristiche individuali della persona che spesso ha una sua storia di dolore.
In questo senso è importante umanizzare le cure e sottolineare il ruolo della cura secondo la prospettiva del to care, intesa come un prendersi cura globalmente della persona malata, non solamente da punto di vista tecnico-medico, in quanto il soggetto in questa situazione soffre di un dolore totale, non solo fisico ma anche psicologico-spirituale, al quale deve corrispondere una cura globale, che sia capace di rivolgersi alla persona malata in quanto tale.
Soprattutto di fronte a una malattia come il cancro, l’oncologo quindi deve essere in grado di affrontare le scelte più giuste per costruire una relazione in una prospettiva di un incontro dal quale si esce ogni volta cambiati.
Martina Basciano
Martina Basciano, nata a Conegliano il 7 giugno 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico della comunicazione opzione sociale al Collegio Immacolata di Conegliano, dove ha acquisito buone competenze di tipo relazionale, che le hanno permesso di formare la sua persona e di sviluppare la sua sensibilità verso il prossimo attraverso diverse esperienze di volontariato. Tramite la scuola nel marzo 2010 vince il concorso di scrittura promosso dall’associazione “Passione e vita”, mentre nel maggio 2011 partecipa al concorso di scrittura europeo “Famiglia fondamento della società in Europa e nel mondo”, promosso dall’associazione “Movimento per la vita” vincendo il primo premio. Si iscrive alla triennale in Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia; dove ha maturato un forte interesse per l’Etica di fine vita e la Bioetica, sviluppatosi soprattutto dopo la scomparsa della madre nel 2016, alla quale è stata dedicata l’Associazione benefica di promozione sociale “Il sorriso di Cristina”. A partire da quest’anno quindi, viene nominata consigliere dell’associazione, che opera nel territorio, con lo scopo di aiutare tutte le persone che si trovano in difficoltà.