«La Musica deve elevare l’anima al di sopra di se stessa, deve farla librare al di sopra del suo soggetto e creare una regione dove, libera da ogni affanno, possa rifugiarsi senza ostacoli nel puro sentimento di se stessa» (Hegel).
Il “Progressive”: alcuni musicisti, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, intravidero la possibilità di dare spessore culturale al nuovo genere musicale più in voga nel mondo, il Rock. Così, cominciarono ad interpretare quella musica “popolare” e sostanzialmente leggera attraverso gli occhi e gli strumenti della Musica Colta, del Jazz, del Fusion, e al tempo stesso sfruttarono le enormi possibilità che i progressi dell’elettronica e della tecnologia davano loro. Quindi le canzoni vennero rimpiazzate da lunghe suite musicali, che spesso venivano estese alla durata di 20 o 30 minuti, includendo influenze sinfoniche, temi musicali estesi, ambientazioni e liriche fantasy e complesse orchestrazioni. Per dimostrare quanto questo abbia avuto una portata globale e inclusiva, basti dire che l’unico momento in cui l’Italia ha avuto un peso sulla scena mondiale del Rock è stato questo, grazie, tra gli altri, a PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Area e Le Orme, tutti gruppi Rock Progressive anni ’70.
In Inghilterra, patria del genere, i “teorici” del Prog erano sostanzialmente due: Roger Waters e Peter Gabriel, Pink Floyd e Genesis. Mi rivelo: io preferisco il primo. Credo che con i Pink Floyd si sia raggiunto il punto più alto dell’espressione Progressive, per musiche e testi, ed il merito è assolutamente di Waters. Sono andato qualche anno fa alla tappa di Padova del The Wall Tour per il quarantennale dell’uscita dell’album e, oltre a essere il miglior concerto a cui abbia assistito, ho dovuto registrare il fatto che quella Musica vecchia di quarant’anni è ancora avanti anni luce rispetto a oggi. Avevo da poco sentito in concerto i Muse, a mio parere la punta di diamante del Rock contemporaneo, ma non c’è storia, sono più moderni i Pink Floyd.
I Genesis mi piacciono meno, non posso farci nulla. Forse Peter Gabriel è uscito troppo presto dalla formazione per potersi esprimere al meglio in quella Musica. Forse, visto che anche Phil Collins (il cantante successivo, già batterista del gruppo) mi piace di più da solista, ho un problema personale con “l’amalgama” della band. Fatto sta che Peter Gabriel, in seguito al periodo Genesis, penso sia l’unico ad aver superato quel genere. I suoi primi 4 album, dal ’77 all’82, non hanno un titolo, poiché «volevo che fossero considerati come dei numeri di una rivista più che come opere indipendenti». Il successo arriva subito, con la magnifica Solsbury Hill, e si comincia ad ascoltare qualcosa di nuovo, nonostante l’album sia ancora strettamente legato alle sonorità Progressive e Pop, che verranno perse nel successivo, più sperimentale ma di poco successo. La svolta inizia ad intuirsi con il terzo disco, che vede la collaborazione di Phil Collins, Kate Bush e Robert Fripp, fondatore dei King Crimson, che disse una frase magnifica: «la Musica è il calice che contiene il vino del silenzio. Il suono è quel calice, ma vuoto. Il rumore è quel calice, ma rotto». In canzoni come Biko o Games Without Frontiers si sentono i primi accenni di World Music, che ritroveremo in Us.
Ma il vero Peter Gabriel spaziale è quello degli ultimi tre album. Il terzultimo, So (1986), è il suo lavoro più noto. Da qui in poi non si riesce più a classificare la sua musica con categorie preesistenti, c’è Peter Gabriel e basta. Oltre il Pop, oltre il Rock, oltre la New Age, è un’opera che tiene incollato il mondo intero al giradischi per 37 minuti. Molte tracce sono al vertice delle classifiche e l’artista raggiunge il culmine della popolarità. Il penultimo disco, Us (1992), è, insieme a Heroes di David Bowie, una grande dimostrazione popolare dell’influenza di Kierkegaard nel nostro modo di concepire il singolo, essendo entrambi album che parlano dell’importanza dell’esistenza dell’uomo come parte di una relazione. In particolare però, Us è il massimo raggiungimento commerciale della World Music: in tutte le tracce si sente una marcata influenza di musiche e generi da tutto il mondo, con il richiamo a motivi etnici ed esotici. Subito dopo la sua uscita, infatti, Peter Gabriel rilasciò Plus from Us, una raccolta dei brani che lo hanno condizionato nella scrittura di Us, che contiene tracce di artisti africani, medio-orientali e sud-americani. Infine l’ultimo album, Up (2002), riprende le tematiche cupe e sperimentali del suo secondo lavoro, aggiungendovi però una sapienza tecnica e un’impronta elettronica, che fanno di alcuni pezzi come Signal to Noise dei capolavori assoluti.
Ma la cosa più sconcertante, dal mio punto di vista, è questa: nonostante l’enorme successo commerciale e i milioni di ammiratori nel mondo, non è stato raggiunto da nessun altro artista, si trova ancora anni-luce avanti a qualsiasi altro cantante Rock. E tuttavia, sebbene la musica in particolare nell’ultimo ventennio sia sostanzialmente assoggettata alle logiche di mercato, e vere e proprie espressioni che vogliano portarsi avanti, scoprirsi come avanguardie riuscendo a non restare nelle nicchie non si vedono all’orizzonte, forse un giorno arriverà ancora una voce che spaccherà il vetro della musica commerciale, e sono sicuro che avrà preso da Peter Gabriel. La domanda a questo punto è una, già posta da Massimo Cotto¹, e si crea unendo il titolo degli ultimi tre album: «So, Us Up?», che suona più o meno così: «Allora, siamo pronti?».
Alessandro Storchi
[Immagine tratta da Google Immagini]
NOTE:
1. Massimo Cotto, Everybody’s talking: 50 interviste alle leggende del rock, Aliberti 2007.