Immaginate di essere stati lì, catapultati in una situazione imprevista, di fronte a un brutto ceffo che fino a qualche istante prima non avreste mai osato guardare in faccia, se non per l’ingresso in un locale notturno.
Immaginate che vi metta queste due pillole davanti con una spiegazione tanto ermetica quanto didascalica.
Cosa fare? Quale dannata pillola ingoiare, prima che sia lui stesso a ficcarcene una in gola (di sicuro quella sbagliata)?
Bisognerebbe fermare il tempo, chiedere un time out all’universo e infilarci in una dimensione spazio-temporale che ci permetta di esercitare quella razionalità olimpica che Herbert Simon attribuiva inizialmente all’essere umano. La scelta perfetta, insomma, quella che potremmo prendere se avessimo tutto il tempo necessario, analizzando pro e contro e potendo sostituire il nostro cervello con un computer impeccabile. Possibile? Per ora no, non del tutto almeno: ci dobbiamo accontentare di una razionalità limitata.
Prima di cedere alle pressioni di un qualsivoglia bodyguard incattivito, che ci accompagna con autorità all’unica e incontrovertibile possibilità di scelta, dovremmo quindi fare i conti con le nostre peculiarità: scarsità di risorse, quantità di tempo ridotta, capacità computazionali limitate.
Ecco messo a nudo l’essere umano, un essere che vive di un sistema emotivo di cui fatichiamo spesso a riconoscere confini e manifestazioni quotidiane, ma che si frappone sempre tra quello che pensiamo (o speriamo) dovrebbe accadere e quello che invece accade.
Tra premesse e conseguenze ci troviamo immersi in una nuvola di preoccupazione e stress, che mettono ancor più in crisi le nostre già ridotte capacità di problem solving; respiriamo continuamente nubi tossiche che entrano a far parte di noi, delusioni e aspettative tradite che incrementano la nostra immobile indecisione.
La teoria dell’utilità attesa, molto cara ad ogni studio sul decision making, ci spiega come prendiamo decisioni in condizioni di incertezza. Ma qui non si tratta di una “semplice” indecisione tra due possibilità; non possiamo massimizzare nessun risultato, scegliendo la pillola migliore, che di fatto non esiste. È il contesto a fare la differenza: l’ansia da prestazione provoca uno stato di stress a cui il cervello risponde con due uniche possibilità: lotta o fuga.
Pillola rossa o pillola blu? Non lo so, e non lo posso sapere finché l’amigdala (sede cerebrale delle emozioni) rimane in uno stato di iperattività e tensione. Il sistema limbico continua a procedere secondo un sistema binario 0-1. Non ci sono altre possibilità e sotto stress veniamo stravolti, non riuscendo più a gestire emozioni, scelte, umore, comportamenti e impressioni, se non con l’unica risposta vitale che in quel momento il cervello riesce a produrre: NO!
“No” inteso come “non scegliere”, “non farlo adesso”, “non ne hai le capacità in questo momento”: qualunque scelta tu faccia ora, sarà comunque sbagliata, perché contraria all’inappellabile suggerimento del tuo apparato emozionale.
Come fare? Accettare il diktat cerebrale, innanzitutto, e assecondare quell’immobilità. Il cervello e il resto del corpo non sbagliano mai; i nostri pensieri, invece, spesso e malvolentieri.
Ma se le conseguenze del nostro silenzio dovessero essere ancor più tragiche di quanto non lo sia una scelta dettata dalla tensione, allora dovremmo premunirci di una consapevolezza generale ben più radicata su tutto ciò che ci riguarda. A partire da passioni, desideri, aspettative, capacità, competenze, abilità, conoscenze, contesto sociale: tutto andrà ben ponderato giorno dopo giorno, alla ricerca di un obiettivo finale che si va definendo in fieri.
Non ci sarà dubbio che tenga, allora, saremo sempre in grado di gestire l’emozione di ogni scelta e ingoiare la pillola rossa con piena responsabilità di ciò che ne deriverà.
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Giacomo Dall’Ava
[immagine tratta da Google Immagini]