I cento anni che ci separano dall’inizio della prima guerra mondiale sono anche il secolo che ci divide da quella che può essere considerata la data di morte definitiva dell’Ottocento, il secolo nato con la rivoluzione francese. L’Ottocento fu infatti l’epoca del positivismo, corrente di pensiero nata nella prima metà del secolo che vedeva la scienza come una fonte di spiegazioni oggettive per ogni fenomeno naturale e sociale, e la storia come una crescita lineare verso il progresso e la ragione.
Questo orizzonte culturale ci appare oggi molto contraddittorio, il secolo XIX non fu solo quello che vide la caduta degli assolutismi monarchici, l’industrializzazione e la nascita del capitalismo: esso fu anche l’epoca del colonialismo sfrenato ed il periodo in cui nacquero il razzismo “scientifico” ed i nazionalismi che poi insanguinarono il Novecento. Non è un caso se in molti videro nel positivismo l’espressione ideologica con cui la borghesia capitalistica legittimava il proprio potere.
Filosofia e arte avevano già mostrato dagli anni ’60 dell’Ottocento questa sfiducia verso quelle che, già nel 1837, Leopardi aveva definito ironicamente “dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”. A partire da Baudelaire, simbolisti e decadentisti reagirono alla esaltazione della ragione e del progresso rifugiandosi in dimensioni fatte di pura estetica, nell’esplorazione del sogno e denunciando l’incapacità della scienza di penetrare nelle oscure profondità dell’animo umano.
In filosofia la critica più celebre agli eccessi della mentalità positivista è quella di Friedrich Nietzsche. Il pensatore tedesco fu tra i primi ad opporsi all’ideale di fiducia incrollabile nell’utilità della conoscenza e a biasimare coloro che si affidano con assoluta certezza alla scienza come se essa fosse una religione con i suoi dogmi. Egli, erede in questo del contemporaneo filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson, affermò la necessità del prospettivismo, cioè di analizzare il mondo secondo diverse prospettive, limitate e relative nello specifico ma preziose per una visione globale delle cose.
La fine del positivismo ottocentesco si ebbe con Freud, quando la scienza scoprì l’esistenza dell’inconscio nella psiche umana e l’uomo di scienza dovette accettare l’idea di non essere una creatura di pura ragione, e nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, dove gli ideali incontrastati di progresso si scontrarono con la dura realtà delle cose.
Il Novecento ci ha insegnato il pericolo insito nella cieca fede al progresso e nelle istituzioni, oggi sembra invece affermarsi la tendenza opposta. L’alba del ventunesimo secolo vede diffondersi in molti una sfiducia acritica e sistematica verso le istituzioni ed il sapere, spesso accomunate arbitrariamente come dei non ben definiti “poteri forti”, oscuri ed invincibili enti asserviti unicamente al capitale ed alla menzogna.
La storia e la filosofia ci insegnano però che, insieme al valore ed alla necessità di dubitare, è necessaria anche una certa fiducia nello sviluppo della scienza e del sapere umani. Fiducia che deve essere sempre messe al vaglio dell’etica: coloro che si dedicano alla scienza, alla filosofia ed alle lettere non devono mai credersi in pace, ma possono, e devono, porre costantemente in dubbio ciò in cui credono senza però cadere nello scetticismo sistematico. Come non è vero che il passare del tempo è una gloriosa ascesa del progresso, così non tutto è destinato a rimanere sempre uguale senza che nulla possa cambiare.
Dubbio e fiducia sono due facce di una stessa medaglia posta in mezzo ai due estremi che sono la sfiducia sistematica e l’accettazione fideistica. E, come diceva già Aristotele, la virtù sta nel mezzo.
Umberto Mistruzzi
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