Primo Levi ha più volte raccontato i termini della sua storia di scrittore: un giovane ebreo torinese laureato in chimica, «ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza», che coltiva «un moderato e astratto senso di ribellione», partecipa brevemente alla Resistenza, catturato dai fascisti viene deportato a Auschwitz nel febbraio del 1944. Quando viene liberato, un anno dopo, il bisogno di raccontare questa esperienza, di dare a essa un senso attraverso le parole, lo porta a scrivere Se questo è un uomo (1947); continua poi a praticare la letteratura come un «secondo mestiere», ogni fine settimana, mentre lavora come direttore generale in un’azienda di vernici e smalti. Nascono così opere narrative come La tregua (1963) o i racconti de Il sistema periodico (1975).
Nel 1986, un anno prima della improvvisa e drammatica scomparsa (forse un suicidio, ma molti sostengano che potrebbe essersi trattato di un incidente), Levi torna un’ultima volta all’esperienza originaria con I sommersi e i salvati. Stavolta, a decenni di distanza dai fatti, li riassume in un’opera estrema: il risultato di una lunga distillazione dei ricordi che hanno sempre ingombrato la sua esistenza.
Un saggio denso, ricco di riflessioni che – spesso prendendo spunto da episodi narrati in altre opere o inediti – approfondiscono e sviluppano gli argomenti dei vari capitoli. In che modo un ricordo come quello del Lager viene elaborato – ma anche conservato e a volte rimosso – da chi lo ha vissuto ma anche da tutta la collettività umana? Per quale motivo essere stati costretti a una vita degradata, calcolatamente disumana, spinge i sopravvissuti a provare una sorta di vergogna della propria esperienza? Come si possono valutare le responsabilità della persecuzione, e quale è stato il ruolo della “zona grigia”, di quelle persone che a vario titolo assecondavano i nazisti nello sterminio? Perché contro i deportati ormai destinati alla morte si usavano violenze del tutto inutili?
Soprattutto, il tema centrale, che dà il titolo al libro e già veniva formulato in Se questo è un uomo è il seguente: se la logica del Lager era la distruzione, solo chi è perito – i sommersi – può dire di aver vissuto realmente, fino in fondo, questa esperienza; ma solo chi si è salvato è in grado di parlare e di riferirne. Un paradosso dolorosamente presente all’autore, che non manca di mettere in guardia il lettore: «Questo libro è intriso di memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso contro sé stesso».
Per ogni tema, per ogni riflessione, l’autore trova formulazioni pacate, di limpida chiarezza, secondo i percorsi di una mente abituata al procedimento scientifico. E queste formulazioni, il risultato finale di una meditazione dolorosa e necessaria, sono severe, solide:
«Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio: e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetico o un sinistro segnale di complicità».
Questo libro è per il lettore un’esperienza forte, l’incontro con una voce segnata dall’orrore ma che si sforza, con tutti i suoi mezzi, di cercare un senso, di salvare le ragioni dell’umanità. E per raggiungere questo risultato si serve di linguaggio di tono medio, che rifiuta tutte le lusinghe della retorica e fa di tutto per rendersi trasparente: le parole sono solo un mezzo, al centro sta un’esperienza tragica con tutte le sue conseguenze, che va resa nel migliore dei modi. E proprio questo controllo dà al linguaggio di Primo Levi la sua forza espressiva: la concentrazione sulle cose, su ciò che deve essere detto, è fonte di ordine e chiarezza, motivi ispiratori di una vita e di una scrittura.
Un libro che va al di là della letteratura, un monito al lettore perché la sua attenzione sia sempre vigile:
«Anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio che dimentichiamo la nostra fragilità esistenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno».
Giuliano Galletti