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Quando a fare politica erano i poeti

Se scorriamo le pur esigue notizie biografiche di molte grandi personalità antiche (filosofi, poeti, soldati, condottieri, ecc.) non sarà difficile imbattersi in espressioni tipo: «fu poeta e abile condottiero», «fu politico e scrisse molte opere poetiche e filosofiche», «diede le leggi alla città». Leggiamo queste parole nelle biografie di Sofocle, Parmenide, Empedocle e molti altri.

Oggi ci può sembrare strano che un politico o un militare riesca ad essere anche poeta. Non solo perché le faccende di un’occupazione non siano compatibili con quelle dell’altra, ma perché ci figuriamo in modo molto diverso la vita, la mente, la quotidianità di un politico da quelle di un poeta. E anzi, vediamo che nel corso della storia questi tipi di personalità sono andati non solo diversificandosi sempre di più, ma anche in qualche modo a scontrarsi: il poeta si occupa delle cose astratte, della letteratura, della scrittura, di qualcosa che comunque è considerato un po’ eccentrico se non superfluo; il politico deve pensare alle cosiddette cose concrete della vita dei cittadini.

Come mai invece una volta le figure potevano coincidere o comunque non erano pensate antiteticamente come oggi?

Ci sono diversi esempi nel corso della storia che non solo valorizzano la poesia, ma le attribuiscono il più alto ruolo nelle forme d’espressione umane. Una buona risposta in questo senso la si è avuta da pensatori del Romanticismo, del Risorgimento, e da personalità che all’inizio del novecento hanno non solo pensato, ma sperimentato sulla pelle il senso della vita vissuta al limite tra una politica cruda e un linguaggio come quello poetico in cui soltanto trovavano le speranze personali e pubbliche future. Saltano alla mente, in questo caso, i nomi di Heidegger, Jünger, Hofmannsthal.

Proprio quest’ultimo ad esempio, ritornando alle radici del linguaggio (ricordiamo a riguardo anche la breve e intensissima Lettera di Lord Chandos) ritrova l’antica e originaria connessione di linguaggio ed etica.

Una lingua, per Hofmannsthal, è «qualcosa di completamente diverso da un mezzo naturale per farsi capire»[1]. Essa è il luogo di incontro atto a «formare una comunità»[2] e proprio in questo intreccio attraverso la lingua si può «partecipare alla proprietà nazionale, essere ricompresi in ciò che rappresenta la nazione e che si realizza compiutamente nella perfetta bellezza della lingua»[3]. Colui che più pienamente si trova in questo crocevia è il poeta: il poeta ha a che fare più di tutti con il linguaggio. Nomina le cose nel modo più appropriato per giungere alla loro essenza e in questo senso gestisce e domina la cose nel linguaggio, il quale mostra le cose nel loro essere in relazione le une con le altre. Così il poeta è autore e guida gli altri, con cui condivide il linguaggio, attraverso l’essere delle cose.

Alla stessa maniera il politico, stando nel mezzo delle cose, le conosce e conoscendole sa gestirle nella misura che è a loro propria. Il suo fare non è come le altre occupazioni: lui può osservarle dall’alto e connetterle per il bene comune.

In questo modo ci appare chiaro come la cura per il linguaggio e la cura per ciò che ci circonda ed è perciò comune, non sono atteggiamenti diversi. Certamente, divenendo la politica mera contabilità o amministrazione, non è più possibile che venga accostata a qualcosa come la poesia, che pure si ritrova decisamente cambiata nei suoi scopi, nei suoi metodi e nei suoi destinatari rispetto ai tempi antichi in cui andava definendosi: probabilmente nessun militare oggi scriverebbe versi su ciò che vive alla maniera di Tirteo, che cantava i fiumi di sangue e l’«orrore che la vista non sopporta»[4] e in cui si trovava e che hanno comunque definito l’esistenza e l’identità della sua Sparta. Così come nessun politico si sentirebbe molto ispirato dalle forme di vita che le città odierne ospitano. Poesia e politica sembrano dunque aver perso le loro origini.

Ma la sua testimonianza e in qualche modo la sua sensibilità sono state preziose per il suo tempo e per il nostro e anche grazie al suo esempio capiamo cosa significhi far parte di una comunità più ampia e servirsi della potenza del linguaggio per crearne un’opera fedele alla realtà in cui viveva. Allo stesso modo altre numerose personalità di un tempo sentivano in modo univoco la spinta a occuparsi della propria terra e quella di raccontarla.

La scissione di queste due figure evocate, il politico e il poeta, può suggerirci che forse siamo lontani oggi da quella fonte comune che è la sensibilità verso ciò che immediatamente ci è più vicino e che teneva insieme impegno sociale, come lo definiremmo oggi, e tensione artistica. Non spetta nemmeno a noi probabilmente decidere di riscoprire e riprendere quel modo di pensare e di agire. Ma se oggi la politica delude e il linguaggio non sembra mai all’altezza delle situazioni che viviamo, non escludiamo nemmeno che riferirsi a quel contesto possa costituire un mattoncino utile per una qualche casa futura.

Luca Mauceri

NOTE

[1] H. von Hofmannsthal, La rivoluzione conservatrice europea, Marsilio, Venezia, 2003, p. 55.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 60.
[4] Lirici greci dell’età arcaica, Rizzoli, Milano, 1994, p. 73.

Luca Mauceri

ironico, sognatore, procrastinatore

Sono nato e cresciuto a Treviso, ora vivo e lavoro a Padova. Mi sono laureato in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dopo essermi appassionato di filosofia antica e contemporanea. Ho pubblicato il saggio La hybris originaria. Massimo Cacciari ed Emanuele Severino (Orthotes) e quando non passeggio o ascolto musica, scrivo articoli e racconti per […]

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