In principio ci fu Robyn Hode, abile arciere e nobile decaduto dopo che Giovanni Senzaterra usurpò il trono del fratello Riccardo Cuor di Leone (partito per le crociate) al quale Robyn era devotissimo. Ritiratosi in una foresta nei pressi di Sherwood, avrebbe iniziato la sua di crociata, per fare del bene per tutta la comunità. Coadiuvato da una banda di fuorilegge, il futuro Robin Hood sarà protagonista di una guerriglia contro l’autorità, derubando i ricchi per dare ai poveri. Intercettando il sentimento che si respirava all’epoca, si potrebbe parlare di un sentore di ingiustizia verso chi ha di più – soldi e terreni – ed il desiderio di fare quello che è giusto, come ristabilire la sperequazione tra ricchi e poveri. Acuita, in questo caso, dalla discutibile gestione dei tributi fatta da Giovanni Senza Terra – chiamato così perché senza eredità paterna – a capo di un regno senza avere né la giusta preparazione né la lungimiranza per poter governare. Il tema è incredibilmente attuale: le diseguaglianze tra ricchi e poveri sono sempre in aumento. E chi sta in cima sembra non essere esente da colpe.
Secondo il World Inequality Report del 2023, il 10% della popolazione mondiale possiede quasi i tre/quarti della ricchezza globale, mentre metà della stessa popolazione ne è quasi completamente priva. Dati allarmanti, destinati ad aumentare la forbice esistente, visto il trend degli ultimi cinquant’anni: mentre i vari Paesi sono diventati sicuramente più ricchi, lo stesso non si può dire dei rispettivi governi. Sandrine Labory, professoressa di Analisi dei settori produttivi all’Università di Ferrara, sostiene come al crescere del debito pubblico corrisponda una diminuzione della capacità governativa di promuovere (e quindi finanziare) politiche sociali di investimento, utili ad aiutare le fasce più vulnerabili della popolazione. Stando così le cose, è chiaro che fare la cosa giusta per un Robin Hood contemporaneo – eroe buono contro i cattivi – possa servire a ben poco. Storia o mito che sia, l’arciere di Sherwood non è stato, comunque, l’unico a provarci in questo modo.
Altri tentativi di ristabilire la sperequazione tra ricchi e poveri sono stati, tuttavia, annacquati da ideali e scopi leggermente divergenti. Per i Tupamaros negli anni ‘60, così come per le Brigate Rosse vent’anni dopo, senza dimenticare le azioni dei militanti della Rote Armee Fraktion tedesca, l’esproprio proletario è stato il metodo utile a finanziare le proprie attività terroristiche. Altro che Robin Hood, svaligiare i negozi e distribuire la merce nel quartiere è servito solo come un pretesto, messo in atto storpiando Karl Marx. Esploso anche in Italia una cinquantina di anni fa, il fenomeno è da ricondursi alle lotte politiche di alcuni gruppi di sinistra extraparlamentari, convinti che gli operai, la vera forza lavoro teorizzata nel Capitale, debbano riappropriarsi dei beni e dei servizi, in quanto prodotti da loro stessi. A tutti gli effetti un diritto. In una situazione di inflazione come quella dell’epoca, i Robin Hood rossi hanno visto la spesa proletaria come unica soluzione per soddisfare i bisogni basilari e materiali delle classi più basse.
Tralasciando la questione prettamente giuridica, dal Medioevo al XX° secolo, il sentimento di ingiustizia e la voglia di rivalsa sembrano rimaste inalterate. E la recente pubblicazione da parte di Forbes della classifica delle persone più ricche del pianeta non fa altro che buttare benzina sul fuoco, con una narrazione tossica e nociva, in grado di mettere al centro, ancora una volta, la sempre più crescente forbice esistente tra loro e gli altri-noi. Se sono solamente in 26 a possedere le ricchezze di 3.8 miliardi di persone, più di un terzo della popolazione mondiale, un problema ci sarà. Evidentemente più d’uno. Acclarato questo, a quale destino andiamo incontro? Martha Nussbaum, in uno dei suoi lavori più recenti intitolato La tradizione cosmopolita (Bocconi 2020) analizza in maniera illuminante l’opera di Adam Smith, economista britannico del settecento, La ricchezza delle nazioni. Avendo come punto focale il cosmopolitismo, Nussbaum riconosce come società infelice e decaduta quella che annovera tra i propri membri gente povera e in miseria. Secondo la filosofa statunitense una nazione, per potersi definire giusta, dovrebbe poter garantire una soglia minima di realizzazione della dignità, da lei chiamata “intrinseca”, soddisfando i bisogni materiali di base della popolazione. «Senza un salario adeguato, ci saranno povertà, carestia e mortalità», diceva Smith 250 anni fa, in un’inconsapevole anatema valido ancora oggi.
Esproprio proletario escluso, si può sperare di invertire la rotta, facendo finalmente del bene? La stessa Nussbaum sostiene come fare del bene non sempre ripaghi: è faticoso e spesso ci si mette di mezzo il caso. Il non sapere l’esito delle nostre buone azioni, sempre secondo Nussbaum, ci deve spingere comunque a migliorarci costantemente. Tutto chiaro. Ma come si può agire in questo senso e tentare di ridurre il divario mondiale tra poveri e ricchi? Riprendendo le parole di Labory, è fondamentale tassare maggiormente le fasce più ricche – praticamente l’opposto di quello che ha fatto Giovanni Senza Terra – e ridistribuire le risorse derivanti alle fasce meno abbienti. A questo, andrebbero aggiunte anche: la promozioni dei “good jobs” sinonimo di reddito dignitoso per tutti, la riduzione del precariato, una formazione al passo coi tempi in grado di dare tutte le competenze necessarie ed, infine, sviluppare ulteriormente i servizi per garantire, nell’anno domini 2024, istruzione e salute di qualità a tutti. Citando un famoso film di Spike Lee che parla di ingiustizie: fa’ la cosa giusta. Anzi, fate.
NOTE
[Photocredit Milo Ezger via Unsplash]