Vivendo la nostra routine giornaliera, quasi inconsapevolmente, diventiamo gli interlocutori di una serie di messaggi che ci vengono trasmessi da degli enormi schermi al plasma. Siamo un pubblico che deve essere persuaso, quasi “ammaestrato”, a prendere determinate scelte definite “giuste”.
In un certo senso, finiamo con il recitare quella stessa parte che non avremmo mai voluto accettare, che ci aliena, che ci allontana dal nostro vero essere ma che, dall’alto, ci viene astutamente imposta.
Andiamo al cinema, guardiamo uno spettacolo di danza, oppure andiamo a vedere la nostra pièce teatrale preferita..sempre pronti a fantasticare sui passi di una storia irreale che ci viene presentata e che, forse, poi così lontana dal normale non è. La distanza tra gli attori e gli spettatori è apparente, meramente fisica.
Ed è questo ciò che accade quando il teatro incontra la vita delle persone.
Ho avuto da poco modo di affrontare queste questioni con Ruggero Franceschini, attore della scuola del Piccolo Teatro di Milano, il quale ci ha dato anche la possibilità di comprendere più a fondo l’intreccio tra il teatro e la filosofia.
A seguito, la breve intervista da cui possiamo ricavare numerosi punti fertili per una più amplia discussione.
Come hai deciso di intraprendere la carriera di attore e qual è stata la “scintilla” che ti ha fatto comprendere che era la strada giusta da seguire?
La strada del teatro è stata per me sempre una strada possibile, fin da quando avevo sette anni circa, ma difficile. Negli ultimi anni ho provato a seguirla, e finora ha funzionato: ma in realtà la mia “carriera” non è ancora iniziata, per ora è stata quasi esclusivamente formazione. Per Jerzy Grotowsky un attore deve studiare per tre anni dopo le superiori, diciamo che ho rispettato questa opinione studiando tre anni alla scuola dl Piccolo teatro di Milano: ora cominciano le difficoltà vere.
Con quale ruolo ti sei identificato maggiormente?
Direi che l’identificazione è pericolosa, tende a non comunicare molto: quindi non è una cosa nella quale cadere, meglio restarne fuori. Mi identifico spesso nei personaggi fatti dagli altri, come è giusto che faccia il pubblico.
Ci sono mai stati momenti, nella tua vita, in cui realtà e finzione si sono tanto avvicinati da confondersi?
Il teatro a volte può servire, a chi lo vede ma anche a chi lo fa, a esorcizzare situazioni reali: intendo dire che a volte la finzione si avvicina alla realtà, e ciò funziona, perché è ciò di meraviglioso che c’è nel teatro, che ti permette di vivere simbolicamente vite in quantità, e esperienze infinite. Tutt’altra cosa quando la realtà si avvicina alla finzione: è inutile e rischioso, anche se può essere divertente.
Che cosa differenzia il teatro europeo da quello italiano?
Il primo, quello europeo, è strettamente legato allo stato, tanto da poter essere definito come “teatro istituzionale”. Il rischio, tuttavia, è quello di poter causare reazioni di scandalo dal punto di vista religioso e culturale. Quella italiana, invece, è una cultura strettamente legata alla tradizionalità. Se da un lato questa può essere vista sotto l’ottica di una forte rigidità formale che si esplica nel rispetto di alcune regole, dall’altro ne emerge una forma di arretratezza che costituisce la bussola che il resto d’Europa non ha.
Pensiamo a Romeo Castellucci. Egli è un noto scenografo e registra italiano.
Ciò che più ha fatto scandalo tra le sue recenti produzioni è stata “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, prima rappresentata in Francia e poi in Italia. L’opera infatti ha mosso numerose critiche soprattutto da parte dei cattolici italiani in quanto ritenuta offensiva della persona di Gesù.
Ecco ciò che ha detto lo scenografo al riguardo:
La performance “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” è stata presentata prima a Essen e poi ad Anversa e ha rappresentato la prima parte di quello che è poi diventato un dittico insieme a: “Il velo nero del Pastore”
Questo è l’inizio. Voglio incontrare Gesù nella sua lunghissima assenza. Il volto di Gesù non c’è. Posso guardare i dipinti e le statue. Conosco più di mille pittori del passato che hanno speso metà del loro tempo a riprodurre l’ineffabile, quasi invisibile, smorfia di rammarico che affiorava Sulle sue labbra. E ora? Lui ora non c’è.
Quello che più di tutto si fa largo, in me, è il volere. E’ mettere insieme il volere e il volto di Gesù: io voglio stare di fronte al volto di Gesù, là dove ciò che più mi stupisce è la prima parte della frase: io voglio.
Rispetto a quali problemi deve far fronte il teatro italiano?
Un primo aspetto da tenere in considerazione è il pubblico. Lo spettatore italiano è solito apprezzare le cose semplici, lineari, quelle caratterizzate da una storia precisa che si sviluppa e sboccia nel tempo. È meno ricercata l’opera enigmatica, ricca di simboli, di difficile interpretazione.
Un secondo elemento, non meno importante, è quello derivato dagli investimenti per la produzione.
Infine ci sono gli attori chiamati a soddisfare i gusti e i bisogni di un pubblico le cui aspettative vengono proiettate sul palco.
Perchè dovrebbe venire scelto il teatro, piuttosto che il cinema?Quale differenza esiste tra questi due mondi?
Credo che tra teatro e cinema si possa stabile lo stesso rapporto esistente tra fare filosofia e leggerne un testo. Da un lato c’è la filosofia incarnata di cui parlava anche Hannah Arendt, dall’altro c’è una filosofia più teoretica, meno quotidiana e vissuta, che tuttavia allo stesso modo andrebbe analizzata.
L’attore, a differenza ci ciò che apparentemente può sembrare, non si limita a portare gli stessi costumi e a recitare le stesse battute. Diderot parlava del “paradosso dell’attore”. Costui infatti presenta una stessa parte, che di volta in volta risulta essere sempre nuova. Non c’è mai un eterno ritorno dell’uguale, ma la stessa scena, paradossalemnte, viene ripetuta in quanto differente. Ciò che proviamo sul palco è diverso, il rapporto con il pubblico anche.
Un altro aspetto importante che differenzia il teatro dal cinema è che il primo è il frutto di un dispendio. Lo stesso Bataille sosteneva in “La sovranità” che in ciascuna cultura, le risorse in eccesso vengono disperse. La dispersione consiste quindi nella sublimazione di una certa quantità di risorse in una particolare forma artistica. Ed in questa stessa dispersione ridiede l’essenza dell’umano. Anche secondo Garcia Lorca, il teatro era un atto d’amore, un atto sacrale di dispendio di energie.
Possiamo quindi affermare che al teatro non viene assegnato nessun tipo di utilità?
Esatto. Se l’arte è un dispendio, un surplus di energie accumulate e incanalate nell’arte teatrale, possiamo sostenere che non esiste una vera e propria utilità pratica o produttiva. Un po’ come per la follia…si ritorna ad un nuovo paradosso, ovvero a quello proprio dell’utilità dell’inutile. Non è forse nei momenti di maggiore difficoltà e di sofferenza, che artisti e scrittori sono riusciti a raggiungere l’apice del loro successo?ciò che apparentemente sembra inutile, nasconde, sotto il suo velo, una forte carica energetica che, a seconda della persona e del luogo, permette la nascita di una certa opera d’arte..
Cos’hanno in comune, per te, filosofia e teatro?
Entrambe, a mio parere, sono delle performances. Hanno un mittente, un destinatario, e applicano i cinque sensi. Ricordo di aver letto che lo stesso Deleuze avesse smesso di fare filosofia nel momento in cui aveva scoperto di avere un problema alle corde vocali. Ciò mi ha fatto profondamente riflettere sull’implicazione dialogica del filosofare, su come ogni singolo elemento sensoriale acquista un senso affinchè la filosofia possa essere pienamente vissuta.
Il teatro però usa un linguaggio differente, quasi metaforico..lascia allo spettatore scoprire ed interpretare ciò ceh sta osservando sul palco. Anche la poesia, non a caso, è nata come metafora e, nel momento in cui viene trascritta, comincia a perdere parte della sua vitalità, come se la parola scritta venisse soffocata dal foglio, annullata.
La filosofia, utilizza un linguaggio noetico, a mezza via tra un linguaggio puramente razionale e simbolico. Ciò dipende anche dalla scelta del pensatore in questione. Basti pensare ad un Nietzsche: chi meglio di lui è riuscito a padroneggiare il simbolo come in così parlò Zarathustra?
Il simbolo, tanto nella filosofia quanto nel teatro, ci permette di concretizzare la performance. Ci permette di viverla fino in fondo e percepirla con tutti i sensi.
Abbiamo avuto l’opportunità di cogliere, grazie a questa intervista, alcuni elementi dell’arte teatrale che forse prima trascuravamo. Abbiamo compreso come recitare non costituisca una mera ripetizione gestuale ma, al contrario, come la recitazione rappresenti una delle forme espressive per eccellenza; come attraverso il personaggio possa emergere l’essenza dell’animo umano.
[immagini tratte da Google Immagini]