«L’espressione “Dio è morto” significa che il mondo ultrasensibile è senza forza reale, non dispensa vita alcuna. La metafisica […] è alla fine».
M. Heidegger, Sentieri interrotti, 1979
Constatato il necessario declino cui doveva approdare il sistema metafisico occidentale, intimamente corrotto perché fondato su di un errore “mortale” (cioè credere l’essere come semplice presenza), Heidegger propone una concezione più concreta dell’esistente calandolo nelle coordinate spaziali e temporali della mondanità. Un’iniziativa, questa, che ben si allinea con una certa tendenza culturale e artistica particolarmente viva in quegli anni che – malgrado il bandito necrologio del “mondo-oltre-il-mondo” della metafisica – non abbandona la speculazione sull’essere ma, al contrario, la ripropone coniugando ad essa l’aderenza alla realtà terrena.
Non diversamente si pone la poesia dell’ultimo Rilke. Poeta apprezzato ed interpretato dallo stesso Heidegger, nelle sue più note raccolte poetiche (Elegie duinesi e I sonetti a Orfeo) e nelle lettere delle corrispondenze epistolari, modella l’immagine di un generale e irraggiungibile Sovrasensibile, evocato da un contatto fisico con la realtà.
Come facesse caro il messaggio con cui Nietzsche si congeda dalla vita nello Zarathustra («Vi scongiuro, o fratelli, siate fedeli alla terra»), Rilke dà il via ad una sentita celebrazione del terrestre che accoglie l’accettazione e l’esaltazione della finitudine umana.
«Loda all’angelo il mondo, non l’indicibile»: l’uomo che vive la terra nella consapevolezza dei propri limiti saprà ravvisare il valore, il senso che si addice alla propria e altrui esistenza, e vedrà nel mondo non una fonte di «profitto temporale, di rapida utilità» (R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, 1980) – come purtroppo accade oggigiorno – ma il compagno con cui confrontarsi per conoscere la propria condizione. Il rapporto auspicato è fisico, concreto, e tale è il linguaggio che lo annuncia. Rilke, infatti, invita a nominare, dire le cose nella loro interezza e semplicità – «Siamo qui forse per dire» (R.M. Rilke, Elegie udinesi, 1997) – ed egli stesso non indugia nel riportare in poesia immagini altrettanto vivide di quel che lo circonda – «casa, / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra» (ibidem).
Dalle parole si passa, poi, ai fatti: come in poesia ogni unità del linguaggio, nella pratica del nominare, rinsalda lo statuto d’esistenza dell’oggetto rievocato e così messo in risalto; allo stesso modo, traslando nella vita reale ciò che accade nella trama del testo, un gesto, uno sguardo, una qualunque forma di attenzione dei sensi per gli stimoli del mondo esterno, che venga quotidianamente rinnovata, assolveranno con maggiore incisività al dovere umano di curarsi dell’ambiente da lui abitato.
Si tratta, insomma, di ribadire all’uomo contemporaneo l’importanza di una vita autenticamente vissuta, per richiamare il pensiero di Heidegger, ovvero di un esserci che vive il mondo e si costituisce per mezzo di esso.
Se anche può apparire scontato, in un’epoca post-metafisica, il ritorno dell’uomo alla fisicità, non è altrettanto ovvia la percezione di un sovrappiù di significazione che vada oltre la semplice materia. Il Sovrasensibile a cui si accennava all’inizio non sarebbe che l’imperscrutabile significato della natura che l’uomo, sin dai primordi, intuiva presente, insito nei fenomeni in cui era coinvolto. È questo l’effimero a cui vengono attribuiti i connotati della divinità, è questo che viene chiamato ed esaltato come Dio, e come principio che avvalora l’importanza della dimensione terrena. Lo stesso Dio del Cristianesimo, cosa che tengono a puntualizzare altri pensatori del primo Novecento (in ispecie Guardini e Bonhoeffer), non è estraneo al mondo, ma è essere metafisico che entra nella Storia facendosi carne, facendosi Cristo.
Su questo intreccio di materia ed essenza intangibile delle cose, si fonda la religiosità rilkeiana. Essa, però, ben si riguarda dall’assocciarsi ad una qualche dottrina o istituzione religiosa. La sensibilità aconfessionale per il sacro si fa con Rilke aspetto peculiare dell’uomo universalmente inteso: come in Orfeo, coabitano nell’umano l’apollineo ed il dionisiaco, il fisico ed il metafisico. È alla luce di ciò, allora, che la metafisica non solo non può decadere, ma è anche l’unica a poter attribuire il giusto peso e la giusta importanza al vissuto.
Rilke volle così ricordare un aspetto dell’esistenza a suo tempo sottovalutato e lasciato in disparte dalla modernità delle macchine e del capitalismo, il solo che a suo parere poteva permettere di abitare dignitosamente una terra non più dominata da potenze ultramondane. Non sarà, però, difficile constatare come il monito non suoni inadeguato per le nostre orecchie.
Beatrice Magoga
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