Il tempo scandito dal coronavirus sembra essersi sospeso, lasciandoci in balia della noia, unica vera compagna in questi giorni di isolamento. Eppure la noia è proprio ciò che può salvarci: medicina per la complessità di nodi che la pandemia non ha fatto altro che stringere ancora di più. Per comprendere la bellezza della noia, bisogna anzitutto distinguere bene la noia dall’ozio, in quanto spesso accumunati dal loro essere tendenti l’una all’altro e viceversa. Indubbiamente l’ozio tende a far percepire in chi lo sperimenta anche la noia, e la noia può tendere a tramutare il proprio odio nel fare o non fare qualcosa nell’assoluto far nulla, divenendo ozio. Ecco: l’ozio è la condizione di riposo per la quale si tende a non agire, a non fare assolutamente niente, nella quale può brillare la luce della noia; quest’ultima è invece una risposta di fastidio, di odio, all’attività che si sta compiendo e può riportare, come già scritto, all’ozio o a qualcosa di diverso.
Prendere in odio l’attività che si sta svolgendo potrebbe portare all’irrequietezza del non fare più niente o ad un’attività completamente diversa e che innalza ogni azione, per quanto materiale, alla contemplazione. Byung-Chul Han, nel suo saggio La società della stanchezza (Nottetempo 2010), scrive che «chi, camminando, si annoia e non tollera in alcun modo la noia, diventa irrequieto e si aggira di qua e di là, avanti e indietro, oppure segue un’attività o un’altra. Chi invece ha maggior tolleranza per la noia, forse dopo un po’ riconoscerà di essere annoiato dal camminare in sé»; insomma, chi si abbandona all’odio per ciò che sta facendo inizia a ragionare sul perché lo stia facendo o sul cosa effettivamente sia ciò che sta facendo, inizierà a riflettere su di esso, abbandonandosi perciò alla contemplazione.
Attraverso questa «azione compensativa» la noia aiuta a comprendere la realtà riflettendo su di essa, non “producendo” una merce consumabile (come la produzione tecnica) o in-consumabile (come la produzione artistica) ma una merce che è lo stesso atto contemplativo, in capacità di modificare la stessa realtà che si contempla. Han difatti scrive che chi è «annoiato dal pensare in sé […] sarà spinto a inventarsi un movimento completamente nuovo». La riflessione posta dalla noia può essere colta come una possibilità: immergersi nel pensiero per comprendere la realtà e poterla mutare.
Tale processo di mutamento non può non coinvolgere le altre persone, finanche nell’isolamento forzato che stiamo vivendo, poiché il coinvolgimento è attuato incondizionatamente nel ripensare la realtà in quanto essa è condivisa e declinata dai molti e non solamente dal singolo. La faticosa condivisione del proprio agire porta a riconoscersi nell’Altro e vedere se stesso in esso, un vero sforzo per l’annoiato, il quale però, attraverso tale sforzo, può condividere con gli altri non solamente la contemplazione e l’azione fattiva ma anche la stanchezza e il risposo successivi, aprendo alla possibilità di condividere la noia, la vita stessa.
Salvatore Diodato
Sono laureato in teologia e filosofia; cultore della filosofia medievale e sensibile alle tematiche legate alla filosofia della mente e del linguaggio nell’ambito della ricerca contemporanea e, per l’appunto, medievale. Attualmente sono tutor presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria.
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