Secondo Anassagora di Clazòmene l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani. Questo gli ha permesso di impiegare le cose della natura arrivando a trasformarla, producendo utensili che manipolassero agevolmente il mondo per piegarlo alle sue volontà, e allontanandosi in tal modo dalla condizione meramente animale. Il processo di trasformazione condotto intenzionalmente e diretto a risorse materiali o simboliche, ha permesso la nascita di quell’attività, rivolta a fini individuali o collettivi, che è il lavoro. L’organizzazione del lavoro ha subito nel corso dei secoli una serie di variazioni, catturando l’attenzione di filosofi, sociologi ed economisti specialmente a partire dall’avvento delle nuove forze produttive con la Rivoluzione industriale. Di fronte agli odierni rischi della precarizzazione del lavoro, Richard Sennett nel suo The Craftsman (L’uomo artigiano, 2013) ha analizzato le caratteristiche che conferiscono dignità allo spirito dell’animal laborans, ovvero dell’animale umano che lavora.
Per Sennett, al di là delle potenzialità intellettive di ognuno, la capacità di fare bene un lavoro è distribuita con bastevole equità tra gli uomini. L’ottenimento di una maestria tecnica si dà con un dialogo tra pensiero e pratica, instaurando dunque una relazione tra la propria testa e la propria abilità manuale, sprigionando così un’esperienza integrale. L’attività pragmatica – più volte messa al bando nella storia d’Occidente – viene descritta come una realtà di fondamentale importanza per l’interazione tra l’uomo e la natura oltreché tra l’uomo e la società. Tale attività caratterizza la figura dell’artigiano, così descritto dall’autore: «L’artigiano rappresenta in ciascuno di noi il desiderio di fare bene una cosa, concretamente, per se stessa». Questa semplice definizione si accompagna alla necessità di contatto con ciò che è tangibile, con le cose toccate con le mani durante la giornata. Tra le serie problematiche in grado di infettare l’aspirazione dell’artigiano, vi sono quelle legate all’ambiente socio-politico in cui egli opera. «Sul campo» – spiega Sennett – «la realtà è che le persone che aspirano a essere bravi artigiani sono depresse e vengono ignorate o mal comprese dalle istituzioni sociali. Questo malessere è aggravato dal fatto che ben poche istituzioni si propongono come fine di produrre lavoratori felici».
Il percorso adattivo a cui il lavoratore è stato costretto nelle diverse società, infatti, si rispecchia sia nell’imperativo morale che consta nel servire il bene della comunità, sia nell’appello alla competitività: ambedue fallimentari, basti pensare all’ideale marxista o al capitalismo occidentale nelle modalità in cui lo conosciamo oggi, dove il lavoro precario costituisce uno strumento di controllo politico-sociale. La soluzione, specifica Sennett, può darsi attraverso la promozione di una cooperazione tra persone, coinvolgendo anche i superiori all’interno delle aziende.
Il processo lavorativo del buon artigiano non deve inoltre farsi scoraggiare o, nella peggiore delle possibilità, annullare dall’intervento delle macchine: la macchina tende a destituire la capacità operativa artigianale, arrivando a generare quello che Michelstaedter definiva come un «istupidimento delle mani». In aggiunta, competere con la macchina significa prefiggere una radicale sconfitta. «Una macchina, come qualsiasi modello, deve proporre anziché imporre, e l’umanità deve certamente sottrarsi al comando di imitare la perfezione. Contro la pretesa di perfezione, possiamo affermare invece la nostra individualità, che è ciò che conferisce un carattere distintivo al lavoro che svolgiamo. Per realizzare tale impronta personale nel lavoro tecnico, sono necessarie la modestia e una certa consapevolezza delle nostre inadeguatezze».
La manualità si associa a pratiche semplici o complesse, dall’afferramento o la prensione fino alla resistenza o l’ambiguità; i bravi artigiani dimostrano grande pazienza di fronte ad un’attività che, per la difficoltà della sua attuazione e per le limitazioni umane, può risultare frustrante: ciò denota il fenomeno della resistenza. Inoltre, nel complesso operativo dell’attività di lavoro, non si deve eludere il criterio del momentaneo spaesamento (o ambiguità), fondato su una progettazione – si pensi all’esempio dell’urbanistica – che può non produrre risultati immediatamente chiari e distinti, lasciando varchi immaginativi. In vista della resistenza e dell’ambiguità, l’animal laborans sviluppa un affinamento della personale espressività, integrando l’uso dell’inventiva: «L’unità tra mente e corpo che è propria dell’artigiano si ritrova nel linguaggio espressivo che guida l’agire fisico». Un agire che deve sempre tenere presente il riconoscimento di mezzi e fini. Se l’etica post factum è quella di chi si pone l’interrogativo etico soltanto dopo aver fabbricato un oggetto, quella del bravo artigiano consisterà invece in un’interrogazione continua, che dura per tutto l’arco della produzione.
La proposta di Sennett, nella sua complessiva semplicità, può offrire un interessante approccio alla tematica del lavoro, pur lasciando aperte alcune perplessità. Quel che è rilevante sta nell’adozione di una logica alternativa a quella dominante, contro la neutralizzazione della reciproca influenza tra la testa e le mani, contro la prevaricazione della quantità (sistema fordista) sulla qualità, a favore di una riscoperta delle abilità tecniche dell’uomo. A riprova, per dirla con Heidegger, che «più in alto della realtà si trova la possibilità».
Enrico Nadai
Enrico Nadai nasce a Conegliano il 26 maggio 1996 ed è residente a Farra di Soligo (Treviso). Frequenta la facoltà di Filosofia a Padova. Accanto all’attività di cantante ha iniziato a collaborare dal 2014 con alcune testate giornalistiche come L’intellettuale dissidente e Oltre la Linea.
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