Con i miei studenti liceali faccio, di solito, un piccolo esperimento: chiedo loro di fare una lista di cinque cose, dalla più reale alla meno reale. Lo faccio un po’ per spiegare i limiti di certa filosofia contemporanea, persa nel dibattito (a tratti ozioso) tra ciò che è reale e ciò che non lo sarebbe, mostrando invece che la questione del reale riguarda intensità e veri e propri ordini di grandezza.
Dalle loro liste emerge spesso un dato comune. I ragazzi mettono agli ultimi posti, nella loro scala delle cose reali, sentimenti e social media.
Gli esperti, e chi a vario titolo si sta giustamente battendo per un’educazione digitale, sostengono che i ragazzi non comprendono quanto veramente accade in rete, sui social. Per tanti di loro, infatti, virtuale non sarebbe reale. E le mie liste lo confermerebbero. I ragazzi possono essere molto aggressivi in rete (ma non solo i ragazzi), perpetuare le loro violenze e credere nello stesso tempo di non star facendo qualcosa di reale, di non star ferendo o tormentando altre persone. Ma non potrebbero sbagliarsi di più.
Su questo punto psicologi, sociologi, esperti dell’educazione hanno certamente ragione. Tuttavia, quando dalla diagnosi si passa alla cura, le cose non vanno certo meglio. La cura – ciò che gli esperti dicono – sarebbe far capire che virtuale sarebbe reale. Non basta, ma soprattutto, messo in questi termini, il rimedio sarebbe ancora più dannoso.
Prendiamo, ad esempio, il primo punto del “Manifesto della comunicazione non ostile”, risultato degli incontri tenutisi con degli esperti il 17 e il 18 febbraio 2017 a Trieste. Il punto del manifesto recita: “Virtuale è reale. Dico o scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona”.
Si comprende l’analisi che c’è dietro questo punto, per certi versi condivisibile. Le relazioni sui social sono caratterizzate da una maggiore disinibizione, perché avvengono attraverso gli schermi, e per questo molte persone timide o introverse quando comunicano in rete appaiono irriconoscibili. Il che spiega anche la diffusione di un fenomeno come il cyberbullismo, che ha reso bullo anche chi in passato probabilmente non lo sarebbe stato o non avrebbe potuto esserlo.
Il bullo tradizionale aveva spesso vantaggi fisici e relazionali che le sue vittime difficilmente potevano vincere: era più forte, era spalleggiato dal suo gruppo di amici, era aggressivo, con scarsa empatia per la sua vittima. Con il cyberbullismo la scena cambia radicalmente: i social media possono dare la possibilità di compiere atti di bullismo anche a chi non avrebbe mai potuto e con conseguenze ben più gravi, come testimoniano i molti casi di suicidio tra gli adolescenti e non solo. Ma l’invito a dire in rete solo ciò che si ha il coraggio di dire di persona non mi migliora certo la situazione.
Ciò che si dice di persona ha meno effetti o conseguenze rispetto alla comunicazione sui social. Ciò che viene chiamato “virtuale”, soprattutto dopo l’avvento di social network come Facebook, è, sotto molti punti di vista, più reale di ciò che viene definito reale. Se un ragazzo insulta un suo compagno in rete, magari proprio come farebbe in classe, non considera la radicale differenza: in rete, su Facebook ad esempio, l’insulto diventerebbe diffamazione aggravata.
La comunicazione in rete è più persistente e più potente (e quindi più persecutoria) di quella, più o meno evanescente, che può esserci faccia a faccia. Quindi virtuale non è reale. Appartiene a un livello di “realtà” superiore. Le chiacchiere in un bar non hanno la stessa realtà, giuridica ad esempio, di un documento scritto e diffuso, di una legge approvata e così via.
L’esperimento delle liste che faccio con i ragazzi ha, pertanto, un obiettivo preciso: capovolgere la gerarchia, l’ordine di grandezza di ciò che considerano meno reale, senza fare l’errore di equiparare (come si fa nel Manifesto citato) virtuale e reale. Dalla loro equiparazione nascono infatti diversi problemi, soprattutto nei più giovani. Pensiamo solo all’incremento dei disturbi del comportamento alimentare, che tra le concause può avere proprio un certo culto dell’immagine favorito dall’uso dei social.
Al secondo punto del Manifesto citato si afferma, ancora una volta pericolosamente e in linea con l’equiparazione tra reale e virtuale, che “si è ciò che si comunica”, ma nessun essere umano coincide con le sue immagini, con le sue foto, con le sue parole. Lo sapeva benissimo, del resto, un grande filosofo dell’antichità, Platone, che nelle sue opere si è sempre scagliato contro la soppressione della differenza tra corpi e immagini, tra voce e scrittura. Tutto è reale, ma non è reale allo stesso modo. E oggi immagini e social network possiedono un’intensità tale da meritare tutta la nostra attenzione.
Tommaso Ariemma
(Il seguente testo è stato pubblicato all’interno del volume Pugni chiusi. Bullismo: punti di vista, non-storie, impressioni, significati. Soluzioni? Un contributo a cambiare, per cambiare, a cura di E. A. Gensini e L. Santoli, Edizioni Dell’Assemblea 2018)
Se volete approfondire il lavoro del professore, a questo link potete leggere l’intervista, molto interessante, realizzata dal nostro autore Giacomo Dall’Ava al professor Ariemma. Buona lettura!
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