Luce Irigaray (1939) è una psicoanalista e filosofa belga le cui teorie hanno fortemente contribuito alla svolta del femminismo della seconda metà del Novecento. Nella sua opera più conosciuta – Speculum. De l’autre femme (1974), ovvero la sua tesi di dottorato – Irigaray si propone di indagare quella che, qualche anno dopo in Etica della differenza sessuale (1982), definirà la “cosa del nostro tempo”.
«Ogni epoca – secondo Heidegger – ha una cosa da pensare. Una soltanto. La differenza sessuale, probabilmente, è quella del nostro tempo. La cosa del nostro tempo che, pensata, ci darebbe la “salvezza”?» (L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985, p. 11).
Speculum tratta il tema della differenza sessuale in maniera propositiva ed emancipativa ma, all’epoca, non è stato un testo accolto positivamente poiché, addirittura, ha fatto perdere a Irigaray il posto di insegnamento in quanto considerato incompatibile con la scuola lacaniana, di cui lei faceva parte. Leggendo oggi il libro ci si rende, invece, conto della notevole importanza teorica della teoria femminista di Irigaray. L’autrice mette, innanzitutto, in evidenza la cecità sia della tradizione psicoanalitica che della tradizione filosofica da Platone a Hegel in riferimento alla donna, considerata un “continente nero”. Filosofia e psicoanalisi, più precisamente, si sono sempre fatti portavoce del fallocentrismo, ovvero della posizione maschilista e patriarcale che definisce la donna come specchio opposto e invertito dell’uomo e, dunque, sempre in una condizione di mancanza e difetto riguardante, tra i tanti ambiti, anche quello sessuale.
«Sembra proprio che, per la donna e da parte sua, non sia possibile un’economia della rappresentazione della sua sessualità. Rimane nella derelizione della sua mancanza di, del suo difetto di, assenza di, invidia di, ecc. che la porta a sottomettersi, a lasciarsi comandare univocamente dal desiderio, discorso e leggi della sessualità maschile. In un primo tempo, del padre» (L. Irigaray, Speculum, Feltrinelli, Milano 2017, p. 44).
Irigaray, invece, dimostra che la donna è ben più della semplice negazione dell’essere maschile e in Speculum lo fa partendo da una serie di domande sulla teoria della sessualità: perché Freud parla di invidia del pene e parla sempre, riguardo alla donna, di una mancanza di e di un’assenza di? Se la sessualità femminile è l’inverso e il rovescio di quella maschile e la donna prova invidia per il pene, allora disprezza il proprio piacere e la propria anatomia. Inoltre, secondo Freud, l’uomo, vedendo che la donna non ha il pene ma una castrazione “naturale”, prova la cosiddetta “angoscia della castrazione”, paura di perdere il proprio pene. Il punto su cui dobbiamo qui concentrarci è il seguente: perché non si parla anche di una invidia per la vagina, la vulva o la matrice? Sarebbe logico che entrambi i poli provassero un sentimento di gelosia e invidia dovuto al contatto che hanno con il diverso, alla voglia di essere simili all’altro e alla sensazione negativa che si prova quando ci si rende conto di essere mancante di qualcosa e di essere in difetto di ciò che l’eterogeneo ha. Sia l’uomo che la donna dovrebbero, dunque, comprendere e patire una sorta di svantaggio a cui non possono porre rimedio perché dovuto al loro avere un sesso. Nella teoria psicoanalitica freudiana, invece, la mancanza e invidia del pene provate dalla donna rappresentano il polo negativo e servono da rappresentanti della negatività in una dialettica fallocentrica, o fallotropica. Il rapporto del maschio con la negatività risulta, dunque, soltanto immaginario, immaginato o immaginabile mentre la donna è stata è e sarà l’incarnazione di questo negativo. Questo è ciò che caratterizza l’ordine simbolico patriarcale in cui soltanto l’uomo è «paradigma dell’intero genere umano, mentre il sesso femminile risulta non pienamente umano» (A. Cavarero, Il pensiero femminista, in F. Restaino e A. Cavarero, Le filosofe femministe, Paravia, Torino 1999, pp. 116-117).
Il sistema patriarcale oggi permane e il fallocentrismo non è stato del tutto superato. Esistono ancora numerosi paesi in cui questo paradigma è l’unico ritenuto giusto e accettabile: basta pensare a ciò che è successo qualche mese fa in Afghanistan. Eppure, anche in paesi più sviluppati come il nostro, rimangono segni di questo sistema: noi donne abbiamo paura di uscire di casa da sole, i nostri corpi sono continuamente sessualizzati e oggettificati, guadagniamo meno degli uomini a parità di lavoro e dobbiamo occuparci dei lavori domestici, che ancora secondo alcuni spettano solamente a noi. Questi sono esempi di ciò che Irigaray ha iniziato e noi dobbiamo continuare a condannare: il posto della donna non può più essere un posto predefinito, riservatole dall’uomo e dai suoi discorsi ma deve diventare un posto mobile, che ciascuna di noi ha il diritto di attribuirsi e modificare.
Dobbiamo rivendicare quindi «una soggettività al femminile» (L. Irigaray, Introduzione, in In tutto il mondo siamo sempre due, Baldini Castoldi Dalai, 2006). Ancora oggi, la corrente della differenza di Irigaray ci parla e ci insegna qualcosa a cui tutti, anche gli uomini, dobbiamo mirare, ovvero rendere possibile una filosofia, e quindi una realtà, a due soggetti.
NOTE
[Photo credit Susie Burleson via Unsplash]