Poche settimane fa, una circolare ministeriale ha reso pubbliche le nuove linee guida relative l’aborto farmacologico attraverso l’assunzione della pillola RU486.
La pillola RU486 è il nome commerciale di un preparato chimico utilizzato per dare un’alternativa non chirurgica alle donne che intendono interrompere la gravidanza nelle prime settimane di gestazione. La procedura di somministrazione del farmaco prevede due fasi: l’assunzione del mifepristone, quindi del principio attivo della RU486 che va ad inibire il progesterone, l’ormone che favorisce e assicura il mantenimento della gravidanza, bloccandone l’azione e provocando, di conseguenza, la morte dell’embrione. Per aumentare l’efficacia della molecola, nelle successive 36-48 ore verrà ingerita un’altra pillola, analogo sintetico della prostaglandina, che provoca contrazioni uterine favorendo, entro poche ore, la fine della gravidanza con l’espulsione del embrione.
L’associazione mifepristone/misoprostolo rappresenta la combinazione più diffusa per l’induzione dell’aborto farmacologicoo e, nel 2006, l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha inserita nell’elenco dei farmaci essenziali per la salute riproduttiva.
Nel 2009, l’agenzia italiana del farmaco (AIFA) pubblica un documento in cui, pur autorizzando la vendita della pillola RU486, stabilisce che deve essere garantito il ricovero della donna dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del feto. Tutto il percorso abortivo deve avvenire sotto il monitoraggio continuo di un medico del servizio ostetrico-ginecologico.
Oggi, le nuove linee guida ministeriali revocano, invece, l’obbligo di ricovero per l’assunzione della pillola abortiva che potrà essere somministrata nelle strutture pubbliche del sistema sanitario nazionale e quelle private convenzionate autorizzate dalle regioni. A poche decine di minuti dall’assunzione del primo farmaco (mifepristone) la donna viene rimandata a casa con la seconda pillola da assumere nelle successive 48 ore. Inoltre, le linee guida superano la limitazione di utilizzo del farmaco abortivo a sette settimane di gravidanza estendendo il periodo di assunzione fino alla nona settimana di gestazione.
C’è chi esulta dopo la pubblicazione di queste nuove linee guida. C’è chi sostiene che si elimina il dolore, l’anestesia e il ricovero dell’intervento chirurgico; si semplificano le procedure finalmente, si facilita il diritto di aborto della donna. Ma quanto c’è di vero in questa presunta facilità?
Sicuramente il vantaggio economico per il sistema sanitario è cospicuo. È molto meno dispendioso procurare il farmaco alla donna e affidarle l’intero processo abortivo, così facendo si risparmiano posti letto, anestesie e investimento umano di medici, infermieri e operatori sanitari. C’è sicuramente un bel taglio di spesa effettuato, però, sulla pelle delle donne.
Intendo riflettere sulla “domiciliarità dell’aborto” prevista dalle nuove linee guida e sulla conseguente eccessiva responsabilizzazione della donna nel processo abortivo. Nelle nuove linee guida, infatti, l’aborto farmacologico viene definito sicuro e si delibera che, passata mezz’ora dall’assunzione della pillola la donna potrà tornare al proprio domicilio; di conseguenza l’espulsione del feto avverrà sicuramente al di fuori dell’ospedale.
La donna, sul fronte medico-sanitario, viene lasciata da sola, abortirà da sola.
La donna ha una grossa responsabilità: deve essere consapevole di quello che le accade, è lei che compie il “gesto abortivo” e ne controlla il decorso. A lei il compito di monitorare la situazione e il controllo del flusso di sangue cercando di capire se l’aborto è avvenuto. A lei l’onere di valutare in autonomia se gli effetti collaterali sono da ritenersi ordinari o se c’è la necessità di interpellare un medico che valuterà se ricorrere a una revisione chirurgica dell’utero.
In questo consiste la tanto celebrata “privatizzazione” dell’aborto medico? Nell’assoluta responsabilizzazione femminile?
Sebbene gli estensori dei vari protocolli cerchino di rassicurare le pazienti affermando che il cosiddetto prodotto del concepimento è indistinguibile dal materiale espulso, vogliamo pensare a chi ha riconosciuto e a chi riconoscerà l’embrione? È questo che le donne vogliono? Credo fermamente che se tante donne hanno lottato perché l’aborto uscisse dalla clandestinità è stato proprio perché non fosse più una vergogna privata ma qualcosa che riguarda tutti, che impegni e che coinvolga anche sul piano morale.
Silvia Pennisi
[Photo credit unsplash.com]