Fin da quando ero un fresco liceale mi sono interrogato sul reale valore del voto scolastico, sul suo peso specifico, su quale potesse essere la sua reale funzione.
Com’è possibile stabilire la diversità del valore dell’intervento o dell’elaborato di un singolo studente rispetto agli altri?
Quali sono i parametri considerati?
Esistono delle griglie di valutazione che consentono una imparziale ed asettica valutazione delle caratteristiche dello studente, in modo da effettuare una valutazione che tenga conto dei punti forti e dei punti deboli del discente?
E, cosa ancora più importante, ha davvero senso sforzarsi di atomizzare e distribuire su più e diversi livelli le conoscenze degli alunni?
Ma la vera e fondamentale domanda rimane: ha senso che una istituzione come la scuola, che ha il compito precipuo di far crescere gli studenti e di aiutarli a sviluppare una cultura personale, continui a basare la propria esistenza sul dogma dell’assegnazione del voto?
Perché in buona sostanza, il voto altro non è che questo: uno strumento che suddivide in classi, in fasce, in categorie.
Esprimo una mia personalissima e certo discutibile opinione, ma a me il parallelismo tra individuo e numero, non è mai andato a genio.
Trovo da sempre che, in ogni contesto sociale, l’equiparazione dell’uomo ad una cifra numerica sia un sintomo di chiusura, di coercizione, una gabbia calata dall’alto per raggiungere un determinato fine, uno scopo reputato superiore al bene del singolo.
La carta d’identità, il codice fiscale, la matricola universitaria, il numero di telefono – per fare alcuni esempi banali – esprimono abilmente questo concetto: introiettare l’individuo all’interno di moduli, schemi precostituiti, formulari e cifre.
Ovviamente, tutto avviene in funzione dell’organizzazione, della razionalizzazione dello spazio e del tempo, dell’allocazione puntuale delle risorse, alla continua ricerca dell’ordine delle cose.
Un ordine che non può essere conseguito se non per mezzo di una schematizzazione sempre più intensa e pervasiva, una fissione continua, una scomposizione della realtà e dell’individuo all’interno di essa.
Non voglio esprimere una contrarietà immotivata allo status quo, anzi, ma mi sembra giusto sottolineare come questa predisposizione all’atomizzazione costante, alla burocratizzazione ed al bizantinismo dei numeri, sia una delle cifre distintive della contemporaneità.
Probabilmente, quindi, questi processi fanno parte di un percorso evolutivo che era inevitabile e col quale ci dobbiamo confrontare quotidianamente.
Il voto si inserisce alla perfezione nel contesto appena delineato.
È esattamente la chiave di volta che avvia il processo di passaggio del bimbo dal fantastico mondo delle idee, al meno esaltante mondo della realtà.
È forse la primissima interfaccia auto-valutativa che si ritrova a dover maneggiare, oltre a quella indotta e stimolata dai genitori e dal confronto con i coetanei.
In questi giorni è circolata la notizia secondo la quale il ministro dell’Istruzione Benôit Hamon ha deciso di indire una “conferenza nazionale sulla valutazione degli alunni”, per decidere se continuare o meno ad affidarsi al classico metodo o se reinventarlo da zero.
Stando agli ultimi dati raccolti, infatti, pare che i giovani francesi siano tra quelli che temono di più l’errore e che evitino con maggior frequenza di rispondere alle domande per paura di sbagliare.
Pare quindi che il voto sia considerato più come una infida Spada di Damocle, costantemente puntata verso il collo dei giovani, piuttosto che come uno sprone ed un incentivo allo studio.
Questo fatto di cronaca mi offre l’opportunità di fare alcune considerazioni personali in merito.
Per esperienza personale, mi sembra di notare un distacco sempre più marcato tra il valore presunto e il reale peso del voto.
Partendo dalla scuola elementare, fino ad arrivare all’università.
Proprio per questo motivo credo che il problema, in verità, non risieda solamente nel concetto stesso nel voto, ma che sia rintracciabile alla radice, e cioè negli obbiettivi che si prefigge il sistema scolastico stesso.
Quale fine intende perseguire l’istruzione in Italia?
Lo scopo è ancora quello di diffondere la cultura e di diminuire il tasso di analfabetismo?
Vogliamo puntare a crescere delle persone che siano in grado di padroneggiare un numero sempre più elevato di strumenti logici e di ragionamento?
Vogliamo sforzarci di far comprendere l’importanza del patrimonio prodotto in millenni di storia umana, per imparare dagli errori e dai successi del passato?
Abbiamo intenzione di far sviluppare a tutti indistintamente le medesime abilità, in base alle rispettive attitudini?
Puntiamo sul potenziale mnemonico più affinato?
Ecco, io credo che il “problema del voto” sia tanto più grave quanto più il mondo della scuola italiana si ritrova a combattere una guerra all’arma bianca, con tanto di stivali rotti e consunti ai piedi.
La crisi economica ha creato un ecosistema ideale per l’esplosione della disoccupazione, è vero.
Ma se nel mercato del lavoro entrano una pletora di studenti con il medesimo percorso formativo, con gli stessi strumenti teorici, il cui unico reale discrimine sulla carta è costituito dal voto (e ribadisco sulla carta, visto che ormai anche questa asserzione è discutibile), è visibile l’emersione di un vistoso collo di bottiglia, che si frappone all’espressione del proprio potenziale nel mondo del lavoro.
Questo perché, a conti fatti, il voto rimane inglobato in un sistema di valutazione rigido, per lo più acritico, slegato dalle reali qualità della persona, dalle loro personali attitudini, dalle potenzialità intrinseche perché innate o sviluppate in maniera autonoma.
Da quelle caratteristiche che spesso sono oltremodo richieste nel mondo del lavoro, ma che non vengono insegnate a scuola, o all’università e che sono comunque parte del bagaglio personale del futuro candidato.
E proprio qui sta il vero snodo cruciale per avvicinarsi al problema e per cercare una possibile svolta.
L’istruzione al momento punta (volontariamente o meno) ad omologare, a censurare le diversità, a sotterrare le aspirazioni personali, le attitudini, e a non occuparsi di sostenere ed incentivare lo sviluppo e la libera espressione della persona umana.
Si preoccupa di tirare su un recinto, di inserirci in mezzo la mandria di studenti, di sottoporli a determinate prove e di stilare un rapporto numerico e distaccato, per poi lasciare decidere al filtro supertecnologico della “meritocrazia” di casa nostra chi è adatto e chi no, ad emergere.
In quest’ottica è evidente che il brutto voto, in un contesto che impone l’avanzamento ed il riconoscimento presunto del valore individuale solo ed esclusivamente per mezzo della scala numerica, possa essere più un freno che uno sprone.
Questo complesso nodo gordiano creatosi nell’ambiente dell’istruzione, altro non è se non una azzeccata cartina tornasole delle difficoltà del nostro tempo.
Un tempo che si preoccupa di trovare una casella, una mattonella specifica all’interno della quale cristallizzare l’individuo, una volta per tutte, onde evitare sovvertimenti dell’ordine faticosamente raggiunto.
Un ordine basato su un sistema paese dove la ricerca spasmodica della stabilità, della certezza, della continuità non ha portato altro che ad accumulare anni ed anni di ritardo culturale, e a rimanere ancorati a dogmi che non sono tali e che possono in realtà diventare oggetto di discussione stimolante e salutare.
Per concludere, può esistere un modello di scuola che non sia imperniata sul voto?
La mia risposta è si, senza alcun dubbio.
Massimiliano Santolin
Classe 1987, Massimiliano Santolin ultima gli studi al Liceo Classico A. Canova nel 2006.
Laureato in Giurisprudenza, coltiva da sempre l’amore per la scrittura, l’arte e la cultura, ed abbina una spiccata curiosità nei confronti di quanto accade nel mondo ad un anima molto sensibile.
Scrive con passione articoli che riflettono sui “perché” e i “per come” dei fenomeni che toccano la quotidianità.
Convinto sostenitore del fondamentale ruolo educativo e formativo della storia e della filosofia, sostiene con gioia l’ambizioso progetto avviato da La chiave di Sophia.
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