Per riprendere e avviare verso una possibile conclusione un discorso che forse è inconcludibile (e che ho aperto qui), credo che ci si debba ora chiedere come si sia arrivati alla sostituzione della filosofia con la sua filologia e storiografia. Le linee di riflessione attorno alle quali propongo di andare alla ricerca di una possibile risposta, sono essenzialmente due.
Primo. Un costante accrescimento del fenomeno della reificazione, introdotta forse, e forse involontariamente, nel pensiero occidentale dalla logocentrizzazione operata da Platone. Dialettica che è diffusamente descritta da diversi autori, ciascuno nei suoi propri termini ma tutti accomunati dal fil rouge della riduzione dei margini del pensare: dall’heideggeriano oblio dell’Essere all’unidimensionalità marcusiana, dalla francofortese dialettica dell’illuminismo alla benjaminiana riproducibilità tecnica dell’arte, dalla andersiana antiquatezza dell’uomo alla pasoliniana omologazione e mutazione antropologica – sia chiaro, en passant, che nessuno di questi autori è un passatista antimodernista critico di ogni cambiamento e della modernizzazione in sé, la critica è invece verso una certa, questa, modernizzazione.
Secondo. Eppure, il filone di riflessione qui sopra accennato non assume quel certo sviluppo come una necessità, ma come una possibilità – almeno fino ad un eventuale punto di non ritorno. Resta quindi da dar conto del fatto per cui tra quella possibilità ed altre, abbiamo imboccato proprio quella – che stiamo vivendo. E qui si devono fare i conti con un tema troppo trascurato: la brama di potere. Infatti, chi vuole detenere un potere può farlo solo se e quando lo stesso può esercitarsi su cose. Il potere è infatti potere di disporre delle cose, ma per disporne bisogna poterle afferrare e per poterle afferrare devono essere oggetti. Un sovrano come può disporre della popolazione se non riducendola prima ad oggetto, pertanto impersonale, del potere – si noti che la legge designa sempre individualità impersonali? Un medico come può disporre di corpi se non riducendoli prima ad una somma di leggi che lui sa gestire? Un accademico che sia interessato ad amministrare le decisioni dell’accademia come può legittimarsi se non riducendo il sapere ad una somma di nozioni che lui sa amministrare? E possono costoro accettare che una possibile diversa ermeneutica metta in discussione quella certa epistemologia che serve loro per essere legittimati nel possesso del potere? Evidentemente no. Ecco che una certa forma della conoscenza, reificata, nozionistica, si impone come l’unica forma possibile, rappresentando il necessario fondamento epistemologico per il possesso del potere.
Fino a quando non faremo i conti anche con le miserie dei singoli individui, oltre che con la descrizione delle marco-dialettiche in cui viviamo, continueremo a stare nell’equivoco di scambiare per dato di fatto oggettivo quella che invece è una certa modalità di interrogare il mondo – e sia chiaro che il mondo risponde in base a come è interrogato.
E tuttavia questo sembra essere il classico cane che si morde la coda: più si accrescono quelle macro-dialettiche, più diminuisce la capacità di leggere il singolo al di fuori delle stesse, ovvero, la sensibilità di percepire l’epistemologia in cui ci si trova e altre possibili.
Per concludere sgombrando il campo da possibili equivoci, in questi due brevi articoli andati sotto il titolo di Se questa è filosofia, ho cercato di mettere in evidenza la differenza tra il pensare e lo studio del pensato. Differenza particolarmente trascurata in ambito umanistico, arrivando fino alla grottesca indistinzione tra filosofia e sua filologia e storiografia. Con questo però non intendo dire che allora la filosofia sarebbe quella che socraticamente si fa per strada, che necessariamente è al di fuori dell’accademia, oggi prevalentemente nello spettacolo dei mass-media. La differenza che ho cercato di mostrare non ha a che fare primariamente col luogo in cui si fa filosofia, pensiero – da qui poi tutta la retorica della critica alla torre d’avorio, retorica che però si dimentica che anche la strada è una torre d’avorio quando ci si rifugia in essa senza considerare cosa sta avvenendo in essa e tagliando aprioristicamente con tutto ciò che è fuori di essa. Limitandosi alla solo critica della sede, infatti, può benissimo rimanere il peccato originale: il rivolgersi a un’audience, a un pubblico, anziché a un altro se stesso.
La differenza essenziale tra lo studio e/o la divulgazione del già pensato e il pensare, sta nel fatto che la prima cosa ha a che fare con la fruibilità, la spendibilità, mentre il pensare è un discorso per, a se stesso – a cui solo secondariamente accede un altro, potendovi accedere solo perché il modo in cui chi pensa per se stesso si rivolge a se stesso è storicamente simile al modo in cui si rivolge ai propri simili. Nel primo caso quindi il pensato altrui ed il proprio è ridotto a moduli spendibili, presentabili alla comunità scientifica, per la verifica e l’incremento delle citazioni, o al grande pubblico, per l’applauso e la commercializzazione. Nel caso del pensare invece, il pensiero altrui, lungi dall’essere qualcosa di cui bisogna essere in grado di dar conto, è un suono in cui quel che conta sono alcuni frammenti che risuonano in noi, fertilizzandoci, unendosi al nostro suono interiore, e portandoci così a comporre un altro suono, il cui valore e significato risiedono solo in colui in cui quel suono risuona, non essendo quindi sottoponibile ad alcun tipo di misurazione e valutazione. Questa è la via dell’alta cultura e dell’arte.
Quel che regge questo mio discorso quindi è l’intendere la filosofia non come scienza, ma come arte. Va da sé poi che una cosa è fare arte, e un’altra è studiarla o commentarla o divulgarla. Differenza che si potrebbe con semplicità rendere nella distinzione tra cultura e sapere.
Ora, è certamente ingenuo, infantile, assurdo chiedere che la civilizzazione occidentale si riorienti in direzione di quella che ho qui definito come cultura (quindi arte, di cui la filosofia potrebbe essere una manifestazione), anziché, come è ed è sempre più, in direzione di quello che qui ho definito come sapere (quindi scienza, compresa quella umana, di cui filologia e storiografia della filosofia sono esempi).
Tuttavia, chi si occupa di questi temi, dovrebbe perlomeno aver chiara la distinzione tra cultura e sapere. E chiedersi se nei luoghi deputati alla cultura (siano essi le università, i libri, i giornali, i siti, le associazioni culturali…) non si faccia invece nient’altro che sapere.
E se così è, che fine fa la cultura?
Federico Sollazzo
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