«Gli uomini agiscono per essere. Ciò non deve essere compreso nel senso negativo della conservazione (per non essere rigettati fuori dell’esistenza dalla morte) ma nel senso positivo di una lotta tragica e incessante per una soddisfazione quasi irraggiungibile» (G. Bataille, Il labirinto, SE, 2017, p. 13).
Tutta l’esistenza umana cela, secondo Bataille, un desiderio che la anima: il desiderio d’essere; ogni uomo aspira dunque, nel suo essere parcellizzato (particella), finito e contingente ad una pienezza di senso che lo trascende e lo implica, ad una totalità più ampia e di più grande significato che lo rende possibile ma che al tempo stesso lo tiene a debita distanza. La ricerca e la tensione diventano tanto più spasmodiche quanto più il loro oggetto è nascosto e in questo caso, se la ricerca di ciò che è celato è complessa, la tensione a ciò che “non esiste” non lo è meno e Bataille è lampante nello stabilire fin da subito che «l’essere effettivamente non si trova da nessuna parte» (ivi, p. 16).
Lo scienziato, l’artista e il politico trovano l’essere nelle proprie discipline: in ciò mentono a se stessi e dunque agli altri, da un lato perché il significato non si può dare ad un solo sguardo e dall’altro perché esso non può non rimandare agli altri aspetti della realtà che cercano di coglierlo.
Per Bataille l’uomo finisce dunque per arrendersi alle difficoltà che il senso gli para dinnanzi, si trasforma in organo servile, rinuncia al suo essere uomo, orienta la sua esistenza verso sensi più pratici e raggiungibili: quelli lavorativi; l’individuo fa di sè l’ingranaggio di un macchinario che lo eccede, si ritiene soddisfatto per il compito parziale a cui è stato relegato e fa «della schiavitù del lavoro un limite da non superare» (G.Bataille, “L’apprendista stregone” in ivi, p. 56).
In definitiva, l’uomo sostituisce alla difficoltà di soddisfazione (del desiderio di significare) l’assenza del bisogno stesso che lo alimenta al vivere: la mancanza di bisogno più infelice della mancanza di soddisfazione1.
Portando Bataille in un versante interpretativo più esistenzialista che legato ai temi della sessualità, è possibile far emergere nei suoi scritti la presenza di una forte riflessione inerente la duplice natura nella quale l’uomo si trova, in bilico tra lo statuto del soggetto e l’esperienza dell’oggetto; temi ampiamente discussi nella filosofia del Novecento e, per i particolari legami esposti tra il tema dell’esistenza e quello del lavoro, chiaramente vicini ai nuclei tematici di Kafka, così come sono esposti, ad esempio, ne Il Castello o ne La Metamorfosi.
Quest’ultimo scritto in particolare rappresenta una (e non solamente tale) versione narrativa di quanto abbozzato da Bataille: il protagonista, Gregor Samsa, è un uomo che, a causa della propria condizione animale, viene meno al suo scopo lavorativo ed esistenziale; in ciò la corazza è la causa della sua impossibilità di lavorare ma è ancor prima l’incrostatura di senso che lo avvolge o lo nasconde a se stesso: ciò che è primo nella mente del protagonista infatti non è l’assurdo della sua nuova e improvvisa condizione ma la conseguente impossibilità di recarsi al lavoro, segno che ad una soddisfazione e ad un senso esistenziale più ampio sono stati sostituiti fini lavorativi più pratici e meno consistenti. In aggiunta a ciò, in quello che è il più noto dei racconti kafkiani, il tema dell’alienazione e della solitudine è centrale: la stessa famiglia del protagonista non riconosce in lui uno statuto, un significato, perché egli è venuto meno all’unico strumento che avrebbe potuto, animale o uomo, renderlo membro produttivo e accettato della società; fuori dalla macchina lavorativa e dai sensi parziali che affibbiano a se stessi «gli uomini scoprono [dunque] la loro solitudine in una notte vuota». (G. Bataille, Il labirinto, cit., p. 15).
Quella che emerge attraverso le parole dei due autori è una visione negativa e critica dell’impostazione lavorativa e più specificatamente di un tipo particolare di lavoro, quello non vissuto, imposto o autoimposto; due soluzioni sono però possibili: rendere il lavoro strumento di espressione e mezzo della costruzione del proprio senso nel mondo o aderire alla macchina lavorativa senza però sottomettersi totalmente a essa; poggiare sulla materialità per cercare di scorgere qualcosa che vada oltre; poggiare sul senso lavorativo per tentare di intravedere e costruire, laddove possibile, il proprio senso. In breve, assecondare dunque l’esperienza dell’oggetto per ambire a quella del soggetto.
NOTE
1. Titolo del primo paragrafo de “L’apprendista stregone”, in G. Bataille, Il labirinto, SE, 2017, p. 55.
[Photo credit Emmanuel Ikwuegbu]