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“Shiva baby” e il dogma culturale della vocazione

Un soggiorno buio e affollato, una microcomunità ebraica riunita per commemorare una giovane defunta, e una pioggia di cocci attorno a un altare caduto: la shiva baby protagonista del film omonimo, laureanda ventenne sull’orlo vertiginoso di un futuro senza reti e incerto, è scossa dai singhiozzi; schiacciata dalla pressione delle aspettative e del confronto con coetanei apparentemente brillanti, ripete, convulsamente: «Non lo so. Non so che cosa fare» (trad. mia).
Uno dei noccioli tematici di Shiva Baby è la pressione culturale attorno alla presunta necessità di inseguire uno scopo esistenziale per giustificare di essere in vita: abbiamo bisogno di una direzione chiara e stabile per sentirci realizzati, non inutili, riconosciuti; dobbiamo sapere dove stiamo andando e cosa stiamo facendo e perché. Il cinema, la letteratura, i media brulicano della narrazione moralizzante per cui esiste uno scarto netto tra l’avventura di “vivere” e l’esperienza passiva di “esistere”, direttamente riconducibile ad avere uno Scopo rispetto a cui orientarsi nella vita, organizzare le proprie gerarchie di valori, investire le proprie risorse e servire l’interesse della collettività, versus non averne nessuno.

L’idea di interrogare la propria vita rispetto a un senso, di provare e sperimentare e concentrarsi su ciò che ci stimola e si ama non è negativa; per quanto fondata su una serie di presupposti filosofici in se stessi rivalutabili, in sé potrebbe contenere un elemento di verità, che ritroviamo ad esempio nel verso di Auden «L’Uomo deve innamorarsi / di Qualcuno o di Qualcosa, / o altrimenti ammalarsi» (W. H. Auden, Grazie nebbia!, Guanda, 1977, p. 58); l’aspetto che potrebbe apparire problematico è la tendenza a sovrapporre integralmente l’identità individuale con uno scopo esistenziale, e a misurare il successo della vita di una persona sulla sua capacità di individuare o meno la propria vocazione. È problematica l’idea che solo quando si ama intensamente qualcosa si acquista definitivamente un’identità compiuta e si è finalmente pronti per realizzare il proprio potenziale.
Idea rappresentata obliquamente ne L’attimo fuggente, quando Robin Williams, nei panni di un appassionato professore di inglese, stuzzica i suoi studenti sul senso della vita declamando i versi di Withman: «Il potente spettacolo continua e […] tu puoi contribuire con un verso. Quale sarà il tuo?». Questa scena contiene sì un messaggio fondamentale di sfida dei condizionamenti esterni e di stimolo a costruire la propria identità unica e irripetibile, ma allo stesso tempo si legge tra le righe l’invito sociale a fermarsi una volta imbattuti in qualcosa che assomiglia a quella identità, il dogma di cercarsi per trovarsi; è negata la possibilità di cercarsi in perpetuo, cercarsi per continuare a cercare, evolversi e cambiare. 

Secondo l’idea mainstream rispecchiata nel film, l’essere umano è incompleto e infedele a se stesso fino a quando, finalmente illuminato, non riconosce quell’orizzonte in grado di riassumerlo, contenerlo, realizzarlo, e decide che è il proprio habitat definitivo; come se il percorso di ricerca dovesse esaurirsi alla prima tappa e non contenere magari svolte, passi svogliati, tentativi di abitare spazi che benché divergenti appaiono ugualmente respirabili. Equivoco esemplificato alla perfezione dal protagonista di Soul: 22 rifiuta la vita perché ne è terrorizzat* e perché, non riconoscendosi in nessuno scopo, è visceralmente convint* di non meritarla; priv* di sogni al servizio del quale consumarsi completamente, 22 si sente inutile, e di conseguenza inadeguat* a vivere. 

Il collegamento tra brancolare nel buio – «Per noi che, dal momento / in cui veniamo al mondo / cadiamo in confusione» (ibidem) – e senso di inutilità personale poggia sul presupposto intrinsecamente debole di dover giustificare il fatto di essere al mondo attraverso una funzione produttiva all’interno della società; un punto di vista più compatibile è che la vita sia in sé un’auto-legittimazione più che sufficiente. Se esiste un prerequisito per vivere, non è tanto la chiarezza di qualche risposta, non è uno Scopo esistenziale, quanto forse piuttosto la disponibilità a mettersi in gioco e provarci.

Film come Soul e Shiva Baby, e in parte L’attimo Fuggente, narrano un punto di vista alternativo alla narrazione per cui felicità e auto-realizzazione si identificano con la capacità di individuare una vocazione; se proprio scegliere bisogna, a questa narrazione si può rispondere scegliendo di scartarla, e orientarsi verso un’educazione alla possibilità di muoversi, di vagare e di cambiare; riprendere atto della condizione privilegiata di essere in vita, sperimentare, amare, cercare; e immaginare la propria stessa presenza nel mondo, svincolata da eventuali sovrapposizioni di utilità e di scopo, come elemento sufficiente.

 

NOTE
[Photo credit Greg Rakozy via Unsplash.com]

Cecilia Volpi

curiosa, distratta, girovaga

Prima di iscrivermi a Lettere studiavo a un liceo scientifico di Mantova; forse è per capricciosa ripicca al rigore matematico di quegli anni che poi ho dato manate di caos alla mia vita, arruffandola apposta: mi muovo tra tre città, Torino (dove faccio l’università), Bologna (dove ho un po’ di famiglia) e Mantova (dove ho […]

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