Qualcosa si è insinuato nelle nostre vite, qualcosa di astratto che non riusciamo ancora ad afferrare pienamente è strisciato nella nostra quotidianità senza che ce ne accorgessimo, ad annunciarne la venuta cartelloni pubblicitari e messaggi mediatici: i brand. “Nel nostro negozio le migliori firme” annunciano i cartelloni, mentre la pubblicità di un negozio di abbigliamento promette “sconti su tutte le firme”, e avanti così…Ne siamo così invasi che ormai fanno parte del nostro mondo quotidiano: “Vado in quel negozio perché hanno le firme che mi interessano”, solo per fare un esempio. Questi brand, o firme, come la mitiche figure dei consumatori e delle consumatrici sanno bene, sono i prodotti firmati da stilisti famosi o di grossi gruppi aziendali, meglio se si il marchio si vede il più possibile.
I brand ancor più dei prodotti continuano a essere oggetto del desiderio, di attrazione, anche in questo periodo di crisi, anche se ridotti ormai a resti polverosi di una moda superata, scartati sia dagli acquirenti più altolocati, quei pochi che pagano a prezzo pieno, sia da quelli che sono pronti ad acquistare in saldo. Ma ci sono persone, evidentemente, che comprano questi oggetti firmati non perché li trovano belli o comodi, o ne hanno bisogno, ma appunto perché sono firmati da quello stilista o sono stati prodotti da quella determinata compagnia, i cui nomi evocano mondi di fascino e celebrità. E’ come sentirsi un po’ un divo o una diva, una celebre indossatrice, una principessa, un attore famoso, perché, come loro, ti sei potuto o potuta permettere “una firma”. Insomma è come comprare una favola, una fuga dalla propria vita quotidiana molto più dura soprattutto in questi tempi così avari di speranza.
Questo mercato non va certo condannato, è un settore dell’economia che è fortemente italiano, uno dei pochi che pare resistere alla crisi e in alcuni casi prosperare, in un certo modo inspiegabile, ma che comunque permette a molte persone di guadagnarsi da vivere e svolge quindi un positivo ruolo sociale. Tuttavia, pensandoci bene, è inquietante l’esistenza di una specie di entità, che certo ha a che fare con i nomi dei grandi stilisti o delle grandi compagnie, ma che sembra sotto certi punti di vista trasformata in qualcosa che vive di vita propria, si muove, va nei negozi, ci aspetta in un outlet…
Sarte anonime di stretta fama locale sono state sostituite da stilisti che rendono così importanti le loro firme, sono scomparsi i piccoli laboratori dove sarti e sarte imparavano il mestiere in anni di apprendistato, a un universo di lavoro artigianale spesso ben fatto, ma senza pretesa di originalità e di stile proprio si è sostituito un altro modello. Oggi il lavoro degli stilisti si vuole avvicinare di più all’arte che alla sartoria di un tempo, e infatti viene giudicato in base a criteri di originalità, creatività, che in un laboratorio tradizionale non venivano richiesti, ma anzi, spesso, guardati con sospetto.
E’ successo così anche con l’arte, che per secoli produceva opere senza firma, fatte da “scuole”, da artisti a cui si richiedeva soprattutto una grande abilità artigianale all’insegna del bello vissuto come , come copia, che ritroviamo nell’estetica antica e in particolare in Aristotele. A queste “botteghe” si è sostituita con il Rinascimento la firma di un artista, che si prendeva responsabilità e merito dell’opera, chiamando in causa la sua originalità creativa.
La cultura moderna è avanzata così, dando sempre più spazio alla soggettività individuale, fino a creare una società in cui tutti vorrebbero diventare una “firma”, fare un lavoro creativo, essere riconosciuti nella propria particolarità. Non ci accorgiamo, spesso, che tutto questo groviglio di prodotti “creativi” è solo apparenza che riveste una produzione industriale, seriale, in cui invece della creatività individuale si ha come protagonista il mercato.
Ludwig Feuerbach diceva “noi siamo quello che mangiamo”, ma oggi corriamo il rischio di dover modificare questa frase in “noi siamo quello che indossiamo” con un evidente subordinazione della nostra identità alla mera etichetta. Così la firma, il brand, si impossessa di tutto, compreso di noi stessi.
Provate a guardare i vestiti polverosi ammassati negli outlet, “firme” appese in immensi stock, capi tutti uguali, privati del fascino che dava loro il negozio elegante, la commessa gentilissima e dal bel portamento, la foto del loro creatore, onnipresente protagonista a tutti gli eventi di moda. Se apriamo gli occhi forse possiamo guardarci intorno e comprare qualcosa, magari senza firma, ma che ci sta meglio e ci piace.
Matteo Montagner
[Immagini tratte da Google immagini]