Abbiamo un problema. Anzi due. Il primo è una questione di spazi: i cimiteri sono sempre più sovraffollati e, di questo passo, non ci sarà più posto. Il secondo invece è strettamente collegato all’attualità con un risvolto, se vogliamo, paradossale. Come se non ci avessimo pensato già abbastanza in vita continuiamo, anche da morti, ad inquinare. Smettiamo di produrre emissioni, così come immondizia, e nonostante ciò continuiamo ad essere nocivi al pianeta, nostro malgrado. Ma com’è possibile? La produzione di bare, per esempio, richiede un disboscamento sistematico, quindi un consumo del terreno, e porta a massive emissione di carbonio proprio nella fase di lavorazione. Come del resto le cremazioni su larga scala, che inquinano l’aria con emissioni, questa volta di anidride carbonica. Come se non bastasse, una volta interrate, le bare inquinano pure il suolo con le sostanze tossiche delle quali sono composte – come per esempio le vernici passate sul legno e lo zinco. Considerando poi che le tumulazioni in loculi in muratura hanno una data di scadenza – lo spazio di cui sopra – la domanda sorge spontanea: cosa possiamo fare per evitare di inquinare anche da morti?
Una soluzione interessante, in questo senso, potrebbe essere rappresentata dal progetto made in USA chiamato Recompose. Presentato all’American Association for the Advancement of Science nel 2020, propone la trasformazione dei corpi in compost, praticamente un concime umano utile alla salvaguardia del pianeta, mediante un riscaldamento a più di 65 gradi – per aiutare la decomposizione e lo smaltimento del corpo ad opera dei microbi – e alla successiva “semina” in un campo, in mezzo alle piante o semplicemente in un bosco. Personalmente, penso sia una soluzione intelligente e piena di un certo romanticismo, degno dei migliori scritti del XVIII secolo. Se dal punto di vista etico, sembra moralmente ineccepibile contribuire al benestare del pianeta, anche dal punto di vista scientifico ha un suo senso. La disciplina chiamata botanica forense, infatti, studia il materiale vegetale in relazione ad una possibile scena del crimine e di come il suolo possa rivelare la presenza o il passaggio di un corpo. Modificando pesantemente la composizione chimica e la concentrazione di nutrienti della terra stessa, un corpo sotterrato rilascia una grande quantità di azoto e questo ha un effetto, per esempio, sul colore e sulla superficie delle foglie, cambiandoli.
Un’altra soluzione, a mio parere meritevole di essere menzionata, è stata pubblicata un anno prima, nel 2019, in un articolo del “Journal of the Royal Society of Medicine” dal titolo Necropolis in crisis: housing the living is one thing, there is also a problem in housing the dead, dove il consulente per la salute pubblica John Ashton propone la creazione di veri e propri viali evergreen, ecosostenibili, accanto a strade e ferrovie, bloccando persino la cementificazione dei terreni agricoli nelle periferie cittadine per farne un campo santo sempiterno chiamato “cuscinetto verde”. Ironia della sorte, qualche mese dopo l’uscita dell’articolo di Ashton, i due alpinisti Daniele Nardi e Tom Ballard, partiti alla conquista del Nanga Parbat, sono morti in alta quota, dopo aver perso i contatti radio con i soccorsi, con delle condizioni meteorologiche non esattamente favorevoli. Nona montagna più alta della Terra e nota tra gli himalayani come “mangiauomini” o “montagna del diavolo”, la cima pakistana è diventata, per volere delle famiglie degli stessi Nardi e Ballard, anche il luogo della loro sepoltura. Complice un’operazione di recupero piuttosto difficile, dopo aver individuato i corpi senza vita dei due sportivi con un teleobiettivo a distanza, le famiglie hanno deciso di lasciare che i resti dei loro cari diventino parte integrante del Nanga Parbat, andando di fatto a cambiare per sempre l’orografia pakistana nella maniera piú romantica e responsabile possibile. Una scelta dettata dal rispetto per la natura, dalla volontà “non scritta” dei defunti e dall’etica alpinista. Di più: il voler rendere sé stessi al pianeta chiamato casa è filosofia morale 3.0. Agendo per fare del bene, facendo ciò che è giusto è, oltre che nella definizione stessa di etica, un modello virtuoso da seguire e con il quale fare proselitismo – sperando di renderlo legge universale – senza perdere di vista l’obiettivo: contribuire alla salvaguardia del pianeta, seguendo quella legge morale che, parafrasando Kant, è insita in noi. Una sorta di imperativo categorico anche morale, in grado di mettere tutti d’accordo proprio per il suo essere corretto e giusto, oltre che mosso da buoni intenti.
Ecco, questo è l’aspetto che preferisco. Preso atto che è impossibile non inquinare, tanto vale tentare di fare qualcosa del proprio corpo da morti, un po’ come quando si firma il consenso a donare il corpo alla scienza o per l’espianto di organi. Certo, non si tratta di dover diventare necessariamente concime, per quanto decidere di “tornare” alla madre terra aiutandola sia decisamente una soluzione affascinante e deontologicamente valida. Giocando, però, con la fantasia, perché non iniziare a guardarsi intorno e scegliere per sé stessi una tomba eticamente ecosostenibile a tutti gli effetti? Personalmente non avrei dubbi: sicuramente in uno specchio d’acqua, col benestare di Talete di Mileto.
NOTE
Photocredit Gavin Allanwood via Unsplash
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