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“Staccando l’ombra da terra”: sei un aeroplano o un pilota?

È trascorso esattamente un anno dall’ultimo respiro di Daniele del Giudice. Staccando l’ombra da terra è un laboratorio di edificazione umana, in quanto invita il lettore a porsi domande cruciali: qual è il valore che si attribuisce alla vita? E qual è il tipo umano che si agita dietro una determinata prospettiva?

Ho riletto quest’opera a distanza di un anno, per riscoprire ogni volta i viaggi che rendono la vita umana rigogliosa, ma anche per non dimenticare quanto fragili siano gli equilibri che la costituiscono. Sono convinta che la lettura di Staccando l’ombra da terra induca nel lettore un bilancio iniziale della propria esistenza: per riscontrare questo suo legame con la vita, occorre meditare di tanto in tanto, nel corso della lettura, su come si posa il nostro sguardo, sulla natura degli elementi che catturano la nostra attenzione, sulla qualità degli stimoli che essi producono in noi, su come l’evento coinvolge e corrompe il nostro pensiero. Del Giudice coinvolge il lettore all’interno delle proprie profondità e lo fa volteggiare nei vortici ad esse connaturati.

«Al tramonto dopo l’atterraggio, faremo lunghi ed elastici passi per rilassarci dalle fatiche dei comandi. Sorrideremo, di nuovo ricongiunti alla nostra ombra» (D. Del Giudice, Staccando l’ombra da terra, 2017).

Del Giudice non interpreta volo e fantasia come un’evasione dalla realtà ma come ciò che educa la sensibilità nei confronti dei fenomeni della vita. Il volo – nella forma fisica e mentale – predispone una riconciliazione con la realtà, “l’aderenza al paesaggio”, l’assenza di livore nei confronti del dolore, una risposta affermativa alle imbeccate della vita, di cui bisogna saperne accettare ogni sfaccettatura.

Tutti siamo capaci di volare e, guardando al passato, riconosciamo questa verità. Il volo della mente o della fantasia è certamente il più rischioso, ma anche il più dovizioso, in quanto non deve limitarsi a ciò che gli strumenti umani consentono. Oltretutto, come il volo fisico, quello mentale si avvale di un linguaggio specifico: fatto di codici universali, ma capace di scivolare liberamente oltre, spaziando negli angoli del cielo.

Pilota è chiunque viaggi con la mente o colui che, tenendo traccia di quei movimenti, viaggia con gli esecutori, come lo scrittore. E siccome si è sempre viaggiato e volato, l’idea della macchina-aeroplano era preceduta da un radicato presentimento e un ardente desiderio. Attraverso la storia di un aspirante aviatore (o meglio, di un divenir-aeroplano), Staccando l’ombra da terra compagina il rapporto singolare che intreccia uomo ed evento, da cui dipende la qualità che ciascuno attribuisce alla vita. In questi fragili equilibri tra volo e “tutto il resto” (ovvero, l’imprevedibilità dell’accadere), il pilota dell’aereo si trova nella necessità di ricrearli continuamente, seguendo l’istinto e applicando il proprio sapere, nei bilanci probabilistici di cadute e successi.

Il protagonista ci viene presentato nella sua seconda lezione di volo, quando si accinge ad eseguire il suo primo volo da solista. Il maestro Bruno adotta dei metodi di insegnamento imperniati sulla capacità di riconoscere e risolvere gli errori: se non si è in grado di comprendere l’errore, la propria e altrui vita è a rischio. L’equazione è semplice, eppure ogni concezione del volo è singolare. Ad esempio, mentre Bruno predilige l’interiorizzazione degli strumenti di volo, il protagonista è più incline a mettere in discussione il proprio sapere in ordine a ciò che è più importante ottemperare. Dunque, sviluppa l’umiltà, consapevole che soltanto l’incontro con l’evento decide dell’individuo. Diversamente dal maestro, il protagonista è aperto a “tutto il resto”, poiché è lì che si appronta la propria strategia di volo, è lì che germogliano il valore attribuito alla vita e la cartografia del proprio tipo umano.

La normalizzazione del volo, avvenuta attraverso la costruzione di una grammatica e al prezzo di molti errori, modificò il modo di vivere e di morire del pilota. Ma la lingua operativa rivela la lingua madre (la lingua del volo della mente) come se volesse ritornarvi nel momento della sua piena maturità o all’inizio del suo declino.

E come nasce un pilota? Nell’infanzia il protagonista amava camminare ed era sedotto dalla traslazione del paesaggio: credeva di essere un tram. Ma vedeva già tutto in altra proporzione: i marciapiedi erano strade che perimetravano isolati, le pozzanghere erano i laghi dentro i crateri vulcanici, e i rigagnoli erano fiumi in piena.

«Quando non ero impegnato nel trasporto urbano su rotaia, mi sentivo un aeroplano: non un pilota, insisto, un aeroplano […]L’infanzia è anche una certa quota, un certo rapporto con la terra, una questione di dimensioni che non si avranno più, un punto di vista ad esaurimento, di cui una volta perduto, si perde perfino la memoria» (ibidem).

«Una volta inventato l’aeroplano, c’è una sola cosa al mondo con cui è veramente connesso, ed è l’infanzia» (ibidem).

Cosa accade diventando pilota? Certamente si diventa un attento timoniere, quando prima si era uno spensierato testimone. Ogni decisione dipende da questo fatto, ogni salvezza grava sulla responsabilità del pilota. E proprio questo peso abilita un nuovo rapporto con “tutto il resto”: il pilota è attivamente amalgamato con la probabilità, si unisce ad essa, come quando esegue le manovre di volo per uscire dai vortici del cielo, mentre l’aeroplano ne è passivamente preso alle spalle. È un rapporto più maturo con il groviglio di virtualità e opposizioni laceranti. Egli scivola nei momenti di caduta, poi ritrova il peso e la gravità, planando sugli alberi. Pertanto: «amavi il caso e le coincidenze, ma a te spettava il battito d’ali, pilota. […] A te toccava essere il signore di quel piccolo limite [entro il quale un aeroplano era ancora un aeroplano], sempre che ti interessasse ancora arrivare sul VOR, e magari anche a casa» (ibidem).

Del Giudice mostrò abilmente quant’è necessario adottare la corretta prospettiva: non orizzontale o verticale, bensì obliqua. L’obliqua sorprende veramente il nostro sguardo: è una visione di profondità spaziale. La vita acquisisce sapore in funzione del rapporto con ciò che si ha e di cui si fa parte. Possiamo lasciare questo mondo avendo vissuto armoniosamente con “tutto il resto”!

 

Giorgia Spaziani

 

[Photo credit Ross Parmly via Unsplash]

 

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