Non è difficile che il pensiero, correndo lungo i versanti scoscesi della quotidianità, interrompa il suo cammino per soffermarsi sul tema della compassione. L’essere umano è vittima della ferita dettata dalla mancanza, dal bisogno; egli soffre quando attraversa la soglia d’un periodo liminale, poiché impigliato nella consapevolezza d’un passato già trascorso e l’inquietudine d’un futuro ove la mente non ha ancore o appigli, ma solo lo sconfinato mare aperto; soffre per la mancanza di qualcosa o di qualcuno, per l’alternarsi dei moti dell’animo o ancora per «le aspirazioni, le sofferenze e le gioie, il flusso e riflusso del cuore dell’uomo». (A. Schopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione, 2013).
Il noto filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860) costruisce su tali considerazioni la sua etica, esposta nel quarto ed ultimo libro del Mondo come volontà e rappresentazione, la sua opera più letta e conosciuta. Nell’economia complessiva della sua riflessione, emerge come l’essere umano si dibatta tra la ricerca di un’integrità, di una stabilità, di un momentaneo riposo e la percezione di una falla, di un punto di rottura, di una faglia aperta. Ogni volta che si ha il sentore d’aver raggiunto un equilibrio, ecco che subentrano con forza dirompente la noia, la paura, l’angoscia, che frantumano quel momentaneo bilanciamento. Questo è, secondo il filosofo, il flusso di quell’impulso cieco, sordo, inesauribile, a-spaziale ed a-temporale che, coagulandosi nelle sue espressioni epifenomeniche, dà luogo all’incessante divenire dell’esistenza.
Uno dei modi che l’essere umano ha per sfuggire a questa agonistica, funesta, battagliera rappresentazione della vita è quello di adottare la compassione, motore dell’etica propugnata da Schopenhauer. Compatire, parola di derivazione latina, significa soffrire insieme, ossia riconoscere nell’altro la radice del proprio dolore; significa assumere la consapevolezza di come l’essere umano sia prigioniero della propria finitezza e sospendere momentaneamente il flusso egoistico e carnefice della volontà per rendere proprio il dolore altrui.
La compassione è dunque l’immediata e spontanea partecipazione alla sofferenza altrui dopo la presa di consapevolezza che coloro che mi stanno dinanzi sono esseri finiti, doloranti, sofferenti; è un amore puro, sincero e disinteressato, una via dolce e facilmente frequentabile che «rende l’individuo estraneo e il suo destino del tutto uguale al nostro» (ivi). Essere compassionevoli non significa essere deboli, emotivamente fragili, dipendenti dall’aiuto dell’alterità; la compassione non è sinonimo di docilità o remissività, bensì una virtù genuina. Compatire significa percepire il dolore altrui come qualcosa che mi appartiene, come ciò che è degno d’esser visto, compreso, accettato. Schopenhauer prosegue ammettendo che «ciò che bontà, amore e nobiltà d’animo possono fare per gli altri è solo di mitigarne le sofferenze; di conseguenza, ciò che può spingerli a compiere buone azioni e opere d’amore è sempre e solo la conoscenza delle sofferenze altrui» (ivi).
In conclusione, si potrebbe dunque dire che nella corrente burrascosa del divenire esistenziale, nella vita dell’essere umano schiacciato dalla ciclicità di gioia e dolore, noia ed esuberanza, riposo ed operosità, l’uomo trova nella compassione un’oasi momentanea, un superamento della propria egoistica individualità; è la chiave per creare unione, comunione, aiuto reciproco e benevolenza; è rimembrare l’insegnamento della ginestra leopardiana, così bella e profumata, seppur nata in luoghi impervi; è ciò che viene reso dal dipinto Il buon samaritano di Delacroix (1849) ripreso anche da Van Gogh (1890). Leopardi, proprio nello Zibaldone, poeta rimembra come sia possibile creare relazioni umane non sempre sottoposte all’imperante legge dell’amor proprio (per quanto anch’esso sia importante al fine di tutelare se stessi per sopravvivere) bensì connessioni autentiche e che esulano da una logica puramente egoistica e strumentale. E tali relazioni sono mosse non da interessi, ma dal desiderio di incontrare l’alterità, di muoversi e aprire spazi di condivisione emotiva al fine di creare ponti da cui poter esplorare la propria interiorità che si pone sulla medesima lunghezza d’onda di chi mi sta dinanzi.
NOTE: [Photo credit Giulia Bertelli via Unsplash]