Triangle of sadness, film del regista svedese Ruben Östlund, riesce a divertire, nauseare, intristire, arrabbiare, far riflettere. Un’opera che ci tocca problematizzando e facendoci sentire non al sicuro.
Il lungometraggio, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2022, si divide in tre capitoli. Il primo, intitolato “Carl e Yaya”, ha per protagonisti due giovani e bellissimi modelli. A cena in un ristorante di lusso, litigano: Yaya non paga il conto, anche se aveva promesso che l’avrebbe fatto. Carl le fa notare che gli stereotipi sui ruoli di genere gli stanno stretti: perché deve pagare lui? Dovrebbero essere uguali – anche se economicamente non lo sono: Yaya gli ricorda che guadagna più di lui.
La vicenda si sposta poi in un’altra location: “Lo yacht”, capitolo due. A bordo, assieme a Carl e Yaya, ci sono personaggi talmente improbabili e stereotipati da risultare realistici. Dimitrij, magnate russo che “vende merda”, come spiega lui stesso (vende fertilizzanti), che è lì con moglie e giovane amante. Una coppia di anziani inglesi che commerciano bombe a mano: “I nostri prodotti vengono utilizzati per difendere la democrazia nel mondo“. Therese, affascinante donna di mezza età in sedia a rotelle, che ripete “In den Wolken” (in tedesco “Tra le nuvole“), poiché dopo l’ictus che l’ha colpita si esprime solo così.
Anche l’equipaggio della nave è bizzarro, indottrinato dalla fanatica Paula, il primo ufficiale, che ribadisce a tutti che devono essere a completa disposizione degli ospiti, praticamente loro schiavi. E poi c’è il capitano della nave, Thomas, nascosto nella sua cabina, probabilmente ubriaco, fino alla fatidica cena con il capitano – la parte letteralmente nauseante, che consiglio di (non) guardare con “consapevolezza”, per chi è debole di stomaco.
Thomas è un “americano comunista“: così lo apostrofa Dimitrij, che invece si palesa come “russo capitalista“. Durante l’apocalittica cena – interrotta a causa di una tempesta, ma soprattutto degli orrendi rigurgiti degli ospiti in preda al mal di mare – Thomas e Dimitrij solidarizzano. Si ubriacano, giocano a carte, si sfidano a colpi di citazioni: Marx, Lenin, Reagan, Kennedy, massime che parlano di capitalismo, socialismo, schiavitù, libertà. Tutto degenera e i due discutono parlando all’interfono della nave, ascoltati da tutti i passeggeri, e seminano il panico parlando di naufragio.
Poi il naufragio avviene davvero: la nave viene attaccata da alcuni pirati armati e nel terzo e ultimo capitolo, “L’isola”, alcuni dei personaggi citati approdano su sponde deserte.
Le dinamiche sociali si sovvertono: prende il potere Abigail, che sullo yacht era la responsabile delle pulizie, ma ora si proclama capitano. È l’unica in grado di procurare del cibo pescando. “Siete pigri e non dovreste essere così dipendenti da me“, dice. Prende vita, sullo schermo, la figura hegeliana (ribaltata) del servo-padrone: Abigail lavora, manipola la natura, sa catturare, uccidere, cucinare, gli altri no – abituati a vivere serviti e riveriti. Alienati rispetto alla natura, essi possono sopravvivere solo in un mondo dove sono loro e quelli come loro a dominare.
È l’alba di una dittatura marxista del proletariato, retta da Abigail, matriarca che rende schiavi Dimitrij e Carl: il primo è pronto a darle tutto ciò che ha pur di ricevere cibo da lei, il secondo diventa il suo amante. Ecco che, ciò che Carl auspicava all’inizio del film, si realizza in maniera estremizzata: Abigail e gli altri non sono uguali, e la celebre massima marxista che Dimitrij cita, “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni“, è usata da Abigail come legittimazione della sua prevaricazione. I bisogni di tutti sono i medesimi, ma non le capacità: se Abigail era sempre stata, nel mondo capitalista, l’invisibile donna delle pulizie, ora è invece una dittatrice incontrastata.
Östlund, in questa satira disturbante e perspicace, pare suggerire che un vero socialismo non sia possibile: gli oppressi diventano all’occasione oppressori, e se possono redimersi… lo fanno? L’interrogativo resta volutamente aperto.
È forse vero che, come ricorda la citazione di Lenin proferita dal capitano Thomas, “la libertà, nella società capitalista, rimane […] la libertà per i proprietari di schiavi“, di chi ha il potere di prevalere su qualcun altro? La stessa domanda può essere posta riguardo al binomio patriarcato/matriarcato. L’ultimo non può sostituire il primo, poiché in tale sostituzione non vi sarebbe libertà, solo scambio di ruoli tra oppresse e oppressori. Constatare ciò non fa che irrigidire il “triangle of sadness” di ognuno di noi – la porzione di viso tra le sopracciglia, dove si concentrano le rughe.
Che cos’è la vera libertà? L’essere umano sarà mai capace di abbracciarla?
Per farlo, dovrebbe prima abbracciare l’altro: accettarlo, accoglierlo, rispettarlo e (pre)occuparsi dell’altro.
Siamo in grado di farlo?
NOTE: [Photo credits: redcharlie via Unsplash]