S: Dovresti uscire dallo studio, ogni tanto: sei sempre chiuso lì dentro, tra i libri e i quaderni, con la luce del pc che quasi ti brucia gli occhi. Da quanto tempo è che non fai due passi fuori?
M: Non capisci.
S: Cosa?
M: Non capisci.
S: Cos’è che non sto capendo, precisamente? Vivo con te senza riuscire a incontrarti in un momentaneo confronto, un momento in cui parliamo.
M: Di cosa vorresti parlare? Non c’è veramente molto di cui possa parlarti: la mia vita non è così interessante.
S: Se non fossi completamente assorbito da quelle tue pagine fitte di appunti, sapresti che, a volte, c’è bisogno di sentirsi chiedere come uno stia, di sapere come stia la persona con cui condividi la quotidianità.
M: Come se fosse realmente possibile.
S: Basterebbe davvero poco: se, per esempio, ritagliassi un’ora…
M: Non sarebbe ugualmente possibile. Non saprò mai dirti come sto e ogni risposta alla domanda “come stai?” non saprò mai comprenderla davvero. Come si fa a dire a qualcuno come si sta?
S: Semplicemente dicendo “come stai?” e “bene, grazie” o “male, grazie”. Tutto molto semplice.
M: Tutto troppo semplice, oserei dire in maniera atroce. Potrai anche essere in grado di dirmi “sto bene” o “sto male” ma, con ciò, sapresti solo mettermi al corrente che stai in un certo modo, che stai così e così, senza riuscire a dire una sola parola sul contenuto del tuo stare, su quel “bene” o su quel “male” che ti premeva comunicare.
S: Dici solo una marea di stronzate.
M: Forse sì, ma il punto è che gli stati d’animo, le emozioni, quello che uno ha dentro, sono un che di incomunicabile, di indicibile, perché sono irriducibilmente diversi gli orizzonti entro cui cadono alcune esperienze: per queste cose non c’è un linguaggio corretto, un codice che possa tradurre come tu stai in un’informazione realmente comprensibile. Pensa solo a tutto il discorso di Wittgenstein…
S: Non so se sei stronzo o se leggi troppo.
M: Di certo, è evidente, tu leggi troppo poco.
Emanuele Lepore
[Immagine tratta da Google Immagini]