«Mi piacerebbe, adesso che sono vecchio, dipingere, con tranquilla innocenza, il mondo meraviglioso» (da Storia di una libreria, 1948).
Quando Umberto Saba (1883-1957), alla fine degli anni Quaranta, scrive queste parole è ormai da tempo un poeta famoso. Da cinquant’anni si dedica fedelmente al Canzoniere, l’opera della vita, in cui si propone di dare un fedele ritratto di se stesso uomo tra gli altri umani. Ha vissuto a lungo e ha cercato di indagare con ogni mezzo le motivazioni profonde delle sue azioni, si è sforzato di dare un senso, attraverso le parole, ai suoi irrimediabili «O mio cuore dal nascere in due scisso, / quante pene durai per uno farne! / Quante rose a nascondere un abisso!». Ha praticato quella che chiama “poesia onesta”, attenta al reale, autentica e sincera, saldamente legata alla grande tradizione letteraria e lontana dalle febbrili sperimentazioni del Novecento.
Poi, nel 1953, durante un ricovero in una clinica di Roma, il suo intento di tornare a un’epoca lontana, di ripercorrerla con la consapevolezza che gli viene da una lunga esperienza, si realizza in un piccolo capolavoro: il breve romanzo Ernesto, scritto in libertà, senza destinarlo alla pubblicazione, e rimasto incompiuto (fu rivelato al pubblico solo nel 1975, molti anni dopo la sua morte).
Ernesto è un ragazzo di circa sedici anni, che vive nella Trieste di fine Ottocento e lavora come praticante nella ditta del signor Wilder, grande commerciante di farina. All’inizio del romanzo ha appena conosciuto un giovane uomo che lo sta timidamente corteggiando; poco dopo, Ernesto si dà a lui senza esitare: «voleva far contento, dar piacere al suo amico, e provare egli stesso una sensazione nuova, desiderata appunto per la sua novità e stranezza». I due cominciano una relazione, ma Ernesto comincia a capire quante cose lo separano dal suo compagno.
Un giorno Ernesto si reca dal barbiere, che decide di sua iniziativa di radergli per la prima volta la barba. Per lui è come il segno di una maturità raggiunta, e d’impulso si reca da una prostituta provando «un grande piacere, ma che non gli riuscì nuovo. Gli parve di averlo provato già altre volte, di saperlo da sempre, da prima ancora della sua nascita».
Ernesto si convince di dover lasciare il suo posto di lavoro, anche perché non trova altro modo per troncare con l’uomo. Così scrive una lettera insolente al suo principale, che lo caccia via. Quando la madre viene a saperlo, Ernesto è costretto a rivelarle il vero motivo per cui non vuole tornare da Wilder. È una confessione di straordinaria intensità, che spinge per la prima volta la madre a un vero moto di affetto nei suoi confronti.
In un ultimo episodio, Ernesto si reca a un concerto del violinista Ondricek; in questa occasione conosce il quindicenne Ilio, un bellissimo studente di violino. Nel momento in cui, incontratisi per caso un’altra volta, si danno un appuntamento, la storia si interrompe.
È evidente che il personaggio di Ernesto è una proiezione di Saba stesso: diversi elementi della storia (come il difficile rapporto con la madre lasciata dal marito, l’abbandono precoce degli studi, un noioso lavoro) sono ricalcati sulla biografia dell’autore. Ma il racconto è affidato a un narratore esterno, ormai vecchio, che rievoca la storia molti anni dopo: come per segnare una distanza, ma allo stesso tempo partecipare fino in fondo alle vicende narrate. Anche il linguaggio gioca sulla distanza, alternando un limpido italiano letterario nella narrazione, e nei dialoghi il dialetto triestino o un italiano più colloquiale a seconda dei personaggi.
Ma l’incanto del romanzo sta tutto nel giovane protagonista: un futuro poeta ancora ignoto a se stesso, sempre aperto al mondo, sempre capace di «giungere al cuore delle cose, al centro arroventato della vita, superando resistenze ed inibizioni, senza perifrasi o giri inutili di parole». La sincerità con cui Saba si ritrae è la stessa del personaggio, semplice e incapace di fingere: «la sua forza e la sua debolezza stavano nel mostrarsi, fin dove possibile, quale veramente era».
Saba trascorse gli ultimi anni giocando con lui, con la libertà che gli derivava dalla scelta di non pubblicare la sua storia e di riservarla a pochi amici, «i soli per i quali il racconto è stato “osato”: pochi – si è detto – tre o quattro in tutto». È una fortuna, per i lettori d’oggi, essere ammessi a questa felice, ristretta cerchia.
Giuliano Galletti