Nell’opera Diabolicus (1931) Fortunato Depero si ritrae come un eroico scalatore nell’atto di realizzare uno schizzo su un taccuino, mentre si accinge alla conquista delle vette dolomitiche che incombono sullo sfondo del dipinto nella loro perpendicolarità assoluta, simili alle gigantesche architetture dei grattacieli di una metropoli americana. Questa immagine della montagna, rappresentata dall’artista trentino, richiama una maniera abbastanza comune di intendere l’alpinismo, incentrata soprattutto sulla verticalità, per cui l’ascensione assume per lo più il carattere di un’impresa agonistica, fisica e mentale, che si realizza con la scalata zenitale e la conquista del picco, mettendo in contrapposizione uomo e natura. Tuttavia, vale la pena di riflettere se sia possibile pensare e praticare un modo diverso di avvicinarsi alla cima, che non sia fondato unicamente su un approccio verticale o sull’idea di sfida e di competizione legata all’ascesa.
La frequentazione delle terre alte ci insegna che, per raggiungere la vetta, non sempre la via diritta è la migliore o quella più agibile. Lo slancio verso l’alto, che ci porta a risalire i pendii della montagna, comporta sovente, infatti, una lunga camminata a zigzag, attraverso declivi e balze. Molto raramente la strada che conduce dal basso verso l’alto ha le sembianze di una linea retta; si avanza lungo un percorso sinuoso, fatto di curve e svolte improvvise, che costringono a cambiare direzione di marcia e ritornare più volte sui nostri passi. Questa modalità di procedere in salita, attraverso svolte e tornanti, è ben conosciuto dagli abitanti della montagna, abituati a vivere la pendenza del paesaggio alpestre, in cui la morfologia del territorio condiziona l’andamento delle strade e dei sentieri, più delle scelte viabilistiche degli uomini. Da un punto di vista filosofico, invece, è interessante rilevare la particolare importanza che la parola “svolta” (in tedesco Kehre) assume nel pensiero di Martin Heidegger.
È noto, infatti, che la filosofia del pensatore tedesco è ricca di termini che richiamano le sue passeggiate nel territorio montuoso della Foresta Nera. Ad esempio, le raccolte di scritti Sentieri interrotti (Holzwege) e Segnavia (Wegmarken) richiamano i sentieri dei legnaioli nei boschi e le indicazioni che troviamo percorrendo i tracciati della montagna. Egli stesso denomina il suo esercizio filosofico “pensiero in cammino” (Denkweg), apponendo alla raccolta completa dei suoi scritti il motto «sentieri – non opere» (Wege – nicht Werke). Mediante il termine “svolta” si è soliti identificare in modo schematico la fase del pensiero heideggeriano successiva alla pubblicazione di Essere e Tempo (1927). Lo scritto difatti si interrompe con l’indicazione che il chiarimento della costituzione dell’essere dell’Esserci resta soltanto una via; il fine è l’elaborazione del problema dell’essere in generale e la sua indagine rimane in cammino verso questo scopo.
A partire dagli anni trenta il filosofo propone la sua meditazione sull’essere, parlando per l’appunto di una “svolta” nel proprio cammino filosofico. Non si tratta, tuttavia, di un mero mutamento di prospettiva nella sua biografia intellettuale, perché per Heidegger l’accadere della svolta è l’essere come tale, in quanto esso si lascia pensare solo a partire dalla svolta. La svolta è allora il passaggio necessario lungo il sentiero della domanda sul senso dell’essere e fa la sua comparsa per indicare un rivolgimento del pensiero, consentendo di leggere unitariamente lo sviluppo della filosofia del pensatore friburghese. Hans Georg Gadamer, celebrando gli 85 anni del maestro, descrive cosa significhi la svolta heideggeriana usando proprio la metafora della montagna: «la Kehre è la curva della strada che si inerpica sulla montagna. Percorrendola non ci si gira, ma è la strada stessa che si volge nella direzione opposta per condurci verso l’alto. Dove? Nessuno potrà rispondere così facilmente» (G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, 1983, p.103).
In questo senso, si potrebbe interpretare la svolta come elemento centrale di un approccio diverso alla montagna, ossia come rivolgimento essenziale lungo la via che porta verso la cima riducendone la lontananza e, soprattutto, annullando la completa verticalità. A guardare bene anche nella parte sommitale della salita del picco montano, la scalata delle pareti rocciose implica un continuo rivolgimento dell’alpinista nella ricerca degli appigli più adatti, per cui l’idea di ascesa verticale sembra appartenere più a una rappresentazione mentale che all’effettiva pratica dello scalatore. La svolta non è allora solamente un banale mutamento di direzione del passo, ma è un modo di dipanarsi della relazione tra uomo e montagna, in cui viene elusa l’opposizione tra basso e alto. Per uscire dalla logica verticale, che tende a configurare l’ascensione dei rilievi alpini come una sfida, contrapponendo uomo e natura, si rende necessaria dunque una svolta, attraverso cui la vetta si lascia avvicinare, senza essere conquistata.
NOTE
[Photo credit Rohit Tandon via Unsplash]