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Verso nuovi paesaggi urbani. Oltre l’Eden, attraverso il bardo

L’arte nasce per compensazione, presentificazione di un’assenza. Quest’assenza può essere di due tipi, che possono talvolta mescolarsi tra loro: può esserci un’assenza di ciò che prima c’era o un’assenza di ciò che non c’è mai stato1. L’arte può trovare terreno fertile in entrambi i casi.
All’oggi, anche l’architettura, che è perenne indagata per volontà artistiche, sembra cercare di presentificare una doppia assenza: la mancanza di ciò che c’era – l’Eden degli albori, alle origini della storia – assieme con la mancanza di ciò che ancora non c’è mai stato – l’Eden come promessa, per un paradiso terrestre al momento del dies illa.

Nell’edenificazione odierna del progetto dell’architettura per la città, quindi, pare si stia dissimulando, da un lato, l’angoscia di una invariata continuazione del recente passato che non vogliamo più, cercando di trasformare l’idea modernista, igienista e disciplinare della città del Novecento in un Eden pre-storico, per il quale la città-giardino pensata a fine Ottocento ci pare troppo debole, e va quindi esacerbata per poter diventare valida; dall’altro lato, va dissimulandosi anche il timore per il futuro: avvolti e coinvolti in una crisi ecosistemica senza precedenti – di cause antropogeniche – cerchiamo salvezza rivendicando qui ed ora la promessa del giardino fiorito dell’Eden.

Come spesso accade, però, forse la soluzione sta nel mezzo, nella mezzatinta, nel grigio – nel bardo.

Nel buddhismo tibetano, il bardo è il luogo di soggiorno di un istante vacante, quello che separa il mondo della vita da quello della morte – o dalla reincarnazione nel ciclo buddhista del samsara. È lo stato, assieme, di massima conoscenza e massima contraddizione: tutte le cose sono interrelate, inscindibili, e il mondo ci appare per come veramente è: un tutt’uno di putrefazione-e-aggregazione, vita-e-morte-assieme, sempre e continuamente. Queste le premesse, il bardo lo si può tentare di leggere anche in controluce, parlando di un luogo antitetico alla sua condizione: l’Eden, appunto.

Ora, dando per assodato che esistono due tipi di libertà, la libertà di e la libertà da2, la grande differenza tra questi due luoghi sta esattamente nei due tipi di libertà ivi concessi. Il giardino dell’Eden è il luogo della libertà da – dai mali, dalle sofferenze, dalla morte –, che è però imposta e sorvegliata: qualcuno “più in alto” ha scelto per noi cosa possiamo e cosa non possiamo concederci. Al contrario, il bardo è il luogo della libertà di – di vedere realmente le cose come sono, il mondo illuminato, la conoscenza nostra e non mediata –, che è però rischiosa: siamo davvero pronti ad accettare il nostro essere solamente di passaggio?

All’oggi, viviamo all’interno di città che, per questioni scottanti3 che ben conosciamo, vanno sempre più naturalizzandosi e vegetalizzandosi, facendo i conti con una massiccia eredità costruita del Novecento che è spesso svuotata, abbandonata o in disuso. Ecco che per molti luoghi – quasi “innominabili” poiché mancano di una specifica destinazione d’uso – dobbiamo forse cominciare a ragionare più attraverso il bardo che non sognando l’Eden. Infatti, se cercare un mitico ritorno al giardino del Paradiso significa tentare di giocare a fare Dio, progettando e disciplinando cosa può e cosa non può essere un’area – ovvero tentare di imporre una libertà da –, cercare di stare nel bardo significherebbe, al contrario, ben disporsi ad accettare la talvolta contraddittoria complessità di quello che ci circonda, essere affabili per pensare prima in termini spinoziani – cosa può un corpo? – che in termini cartesiani – cosa è un corpo? –: in sintesi, tentare di concedere loro la libertà di.

È solo con queste premesse “speculative”, forse, che il paesaggio urbano può ambire a diventare veramente un magnifico monstrum, che «ci rivela che desideriamo […] la mescolanza, […] la metamorfosi» (A. Metta, Il paesaggio è un mostro, DeriveApprodi, 2022, p. 40). Esempi forieri di sguardi rinnovati sull’ambiente urbano in questa chiave sono, tra gli altri, i progetti dello studio GTL Landschaftarchitektur: uno su tutti, quello per la riconversione dell’ex aeropista di Bonames (Francoforte, 2004), dove un nonluogo per eccellenza viene riattivato non attraverso un intervento “litico”, bensì con il reinnesto del vivente (animale, vegetale, e solo infine umano – nel suo utilizzo come grande parco comunitario). Questi come altri – in primis, la precorritrice Île Derborence di Gilles Clément (Lille, 1995), inaccessibile e “anarchica” – sono gesti che ci possono sembrare al limite della loro riconoscibilità all’interno dell’architettura proprio per il loro esulare dalle finalità speciste che solitamente vengono affibbiate alla stessa. Ma, in fondo, si tratta di convincersi ad accettare il flusso costante e cangiante della cosiddetta “natura” che invade gli spazi sfuggiti di mano ad Homo sapiens nel corso degli ultimi decenni o secoli, acquisendo la capacità di vedere oltre il lato capitale del naturale.

Per immaginare un futuro – uno dei tanti possibili – andando oltre l’Eden, attraverso il bardo.­

 

NOTE
1. Cfr. P. Descola, L’arte prima dell’arte, Marsilio, 2024, p. 14.
2. Cfr. I. Berlin, Two Concepts of Liberty, ed. or. 1958.
3. Il riferimento è al titolo dell’opera di Margaret Atwood, Burning Questions (2022), una raccolta di suoi testi (2004-2021) tutti aventi a che fare con la questione climatico-ambientale.
[Photo credit Danist Soh via Unsplash]

 

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore.

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