Che abiti indossano i nostri pensieri? E quali sono dunque le nostre abitudini mentali più radicate? Nel Filebo platonico (38e-39c), Socrate rispondeva: la nostra anima assomiglia a una tavoletta grafica (il foglio di ieri, il tablet di oggi), dove uno scrivàno e un pittore annotano rispettivamente parole e immagini. Platone non è invecchiato male: tuttora prevale l’idea che le rappresentazioni sfilino sulla nostra passerella mentale rivestite appunto o proposizionalmente o pittorialmente – al più, qualcuno inserisce la variante intermedia dei modelli (diagrammi, schemi, ecc.), più astratti delle immagini ma più concreti delle parole.
Però, tradizionalmente, se vuoi mettere la mente in tiro per un vip party intellettuale, dal tuo guardaroba mentale tra i due abiti scegli l’indumento verbale-scritto: se ti rivelassi di star progettando un saggio filosofico a fumetti, facilmente crederesti che è un’opera meramente divulgativa. Ma perché? E dev’essere necessariamente così? Poiché nemmeno la nostra mente esiste senza supporti esterni, le risposte stanno anche in come ci siamo storicamente interfacciati con le diverse tecnologie della parola e dell’immagine, il cui compito è esternalizzare, installare e fissare, materializzandolo, il prodotto del parlare e quello del vedere. Chiamiamole rispettivamente MaCheT’’oDicoAfà e DajeFammeVedè: grazie a esse, ciò che usiamo dentro la testa e ciò che maneggiamo fuori dalla testa si riecheggiano. Ecco allora una super-sintesi del tira e molla tra parola e immagine1.
- L’innamoramento. Parola e immagine vivono simbioticamente come Adamo ed Eva nell’Eden: un idillio fatto di condivisione in compresenza spaziotemporale senza nemmeno il bisogno di MaCheT’’oDicoAfà e DajeFammeVedè, in cui la parola trasporta informazioni che richiamano una sfera sensomotoria comune ed è essa stessa una semplice immagine sonora. Che pace!
- La crisi. Nasce DajeFammeVedè: rende percepibile a piacere e senza limiti di tempo – ma non di spazio, perché non esistevano grotte-mobili – uno scenario anche non più immediatamente presente. È l’invenzione preistorica del disegno – le iscrizioni proto-artistiche. L’immagine si fa segno e scopre così il problema cognitivo del rapporto con la realtà, mentre la parola resta al palo – capace di lasciare il segno solo nell’aria.
- La ricomposizione. La parola si ridà un tono grazie a MaCheT’’oDicoAfà, che rende percepibile a piacere e senza limiti di tempo un discorso anche non più immediatamente presente: ci si può parlare anche senza aprire bocca. È l’invenzione della scrittura alfabetica. Parola e immagine provano così a coesistere senza calpestarsi troppo i piedi, intervenendo a colmare i reciproci limiti; ma la prima – ora ringalluzzita – comincia a svilire la seconda, considerandola uno strumento illustrativo utile soprattutto per incolti e illetterati: “non capisci?! serve mica un disegnino?!”.
- Il divorzio. La parola si ribella definitivamente tramite MaCheT’’oDicoAfà Print, che rende la scrittura replicabile infinitamente, velocemente ed economicamente, regalandole il primato nella trasmissione della conoscenza, dalle informazioni e contenuti più semplici ai ragionamenti e pensieri più sofisticati. È l’invenzione del prodotto culturale per eccellenza della nostra tradizione: il libro. Stavolta è l’immagine a restare al palo, relegata a semplice supporto di emozioni e a strumento per raffigurare artisticamente la realtà, mescolando fedeltà e illusione.
- Il ritorno di fiamma. Mentre la parola si gode la propria supremazia, DajeFammeVedè Mechanics dà un ritocco all’immagine che si è intanto rimessa in piazza, facendole riguadagnare un certo appeal. Fu la volta prima della fotografia, capace di produrre e far circolare le immagini in serie, privandole di quell’aura artistico-sacrale che intanto avevano cercato di ritagliarsi, e poi del cinema (culminante nella televisione), il cui teatro on demand può finalmente riprodurre non solo le immagini in movimento, ma anche la parola parlata e potenzialmente persino scritta. La parola si ritrova così a vacillare, trascinata in una nuova possibile convivenza ravvicinata.
- I piaceri del sesso virtuale. La parola finisce per restare (re)incantata da DajeFammeVedè’ Animation, che rende la finzione teatrale-cinematografica reale e interattiva, trasformando ogni spettatore in attore: è la messa in scena del videogame, che consegna all’immagine il potere di trasmettere il sapere non più soltanto mostrando, bensì facendo (inter)agire. I mondi possibili diventano manipolabili, la realtà diventa laboratorio, l’esperienza diventa esperimento, la riflessione diventa partecipazione, l’analisi diventa immersione, e così via: perché limitarsi a leggere un testo come I promessi sposi, anziché riviverlo? Perché limitarsi a studiare un’opera come La Repubblica, anziché simularla?
Ecco perché la convinzione che la veste più elegante per i nostri pensieri sia quella verbale-scritta comincia oggi a traballare: le immagini reclamano anch’esse un vip pass intellettuale! E chissà, forse un Platone reloaded direbbe che la nostra mente è uno schermo su cui un game designer annota il codice che fa girare un videogame…
NOTE
1. Per la versione non sintetizzata cfr. F. Antinucci, Parola e immagine. Storia di due tecnologie, Laterza, Roma-Bari 2011.
[Photo credit Keagan Henman via Unsplash]