Arte e filosofia, in quanto espressioni di creativa umanità, non possono essere immaginate viaggiare su binari separati. E infatti, senza essere veri e propri filosofi, molti artisti sembrano filosofi, come René Magritte, così vicino alla filosofia da catturare l’interesse di Foucault, così quasi-filosofo da riportare più o meno consciamente nella sua arte il pensiero di Hume e Heidegger. Nel 1962 disse infatti significativamente «per me dipingere significa far vivere il mio pensiero»1.
Magritte voleva che i suoi quadri provocassero nell’osservatore una frattura rispetto all’insieme delle nostre abitudini mentali e portarlo ad interrogarsi sulla natura della realtà che lo circonda senza affidarsi agli automatismi dati dall’esperienza. Consideriamo il celeberrimo dipinto della pipa: non c’è forse paradosso più evidente del vederla affiancata alla scritta Ceci n’est pas une pipe. La spiegazione di Magritte è che quella non è una pipa reale ma si tratta del disegno di una pipa e che le due cose, l’oggetto e il suo disegno, non coincidono; né del resto quella pipa rappresenta tutte le pipe esistenti, dunque non è possibile tradurre in un’unica immagine il concetto di pipa. Non c’è nulla di paradossale dunque in quella frase: si tratta di un’evidenza ancora più chiaramente testimoniata dal titolo dell’opera, Il tradimento delle immagini (1928-29). Tale tradimento si nasconderebbe proprio nel fatto che esiste uno scollamento tra immagine e realtà, tra il concetto e la sua rappresentazione. Ciò che rende questo inganno così riuscito e così straniante è l’utilizzo di una tecnica iperrealistica, anche se spesso proprio quelle immagini, all’interno del gioco del mistero, appaiono sur-reali, al di là della realtà. Gli oggetti rappresentati da Magritte sono oggetti familiari e quotidiani, inseriti in un contesto del tutto diverso dall’usuale: così la loro giustapposizione o contrapposizione apre le porte al bizzarro, alla domanda; in quella sur-realtà gli oggetti sono liberati dalla banalità di senso a cui sono associati.
Un quadro di Magritte dunque va osservato con attenzione, con la curiosità e la purezza di un bambino: lo scopo è infatti d’indurre l’osservatore a lasciarsi andare senza reticenze alle impressioni che le immagini rappresentate gli procurano. Non si tratta di porre sulla tela un inspiegabile mondo onirico, ma di proporre infiniti scenari possibili che possono essere indagati tramite il procedimento logico. Procedimento che tuttavia non viene suggerito da Magritte perché la risposta non è univoca – anzi, non esiste una vera e propria risposta. L’artista infatti segue un percorso logico che è solo suo. Scelgo un caso interessante perché contiene un nuovo rimando alla filosofia, Le vacanze di Hegel (1958). Racconta infatti Magritte in una lettera che il tutto nasce dal gesto artistico, quasi libero dalla sua volontà: il tentativo in quel caso era di disegnare un bicchiere senza farlo apparire banale; al centesimo disegno il bicchiere assomigliava stranamente a un ombrello, allora nel bicchiere ci venne messo l’ombrello, poi il bicchiere finì sotto l’ombrello e infine sopra. L’accostamento apparve improvvisamente geniale perché univa un oggetto con lo scopo di contenere l’acqua a un altro con la funzione di respingerla; Magritte pensò che quel risultato geniale sarebbe stato apprezzato da uno come Hegel, che si sarebbe divertito, quasi come fosse in vacanza. L’osservatore, tuttavia, non deve (né può) ricostruire tutto questo, né tantomeno deve cercare di interpretare il quadro. Il mistero è l’unica cosa che l’osservatore deve scorgere: «è una cosa che non si può rappresentare, la si può solo evocare […] io lo vedo ovunque in ciò che voi chiamate commonplace»2. Ecco allora che i suoi quadri non tradiscono il buonsenso: lo mettono piuttosto in discussione. Per poter fare questo, la stessa presenza dell’artista, il suo pensiero e il suo percorso devono scomparire così che l’opera possa tendere all’immobilità.
Proprio questa è anche l’idea che fa da filo rosso tra Magritte e le radici di una delle maggiori discipline orientali: il taoismo. Secondo il Dao non esiste possibilità di definizione assoluta di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato; in questo relativismo etico, chi segue “la via” deve dimenticare se stesso: scomparendo, egli non è un pensatore, diventa pensiero egli stesso. Più o meno allo stesso modo Magritte scompare. Altro magistrale occultamento del mondo dell’arte è un famoso haiku del maestro Matsuo Basho: «Vecchio stagno / una rana si tuffa / un suono d’acqua»3. Nel dipingere questa immagine di parole, il poeta osservatore scompare, lo stagno e la rana esistono anche senza di lui e il lettore è lasciato solo nel ricercare il significato.
Anche la rana, però, scompare. Lascia un altro vuoto.
Il vuoto è fondamentale tanto nella dottrina taoista quanto nel buddismo e nella sua declinazione zen, poiché esso è totalità (e non contrapposizione) di essere e non essere. Obiettivo dello zen in particolare è quello di cogliere questo vuoto (mu), il che significa aver raggiunto l’illuminazione (satori), ovvero il risveglio della natura di Buddha insita in ciascuno di noi. Per raggiungerla (almeno per la scuola rinzai), è necessaria la meditazione e lo studio dei koan, ovvero quesiti che vengono posti dal maestro all’allievo e che non possono essere risolti con l’utilizzo del pensiero razionale. Un esempio tra i più noti è “Puoi produrre il suono di due mani che battono una contro l’altra. Ma qual è il suono di una mano sola?”. Gli allievi meditano sui koan anche per interi anni, ma non per trovare la risposta: essi infatti non hanno un’unica soluzione né un valore universale e il loro scopo è quello di liberare la mente dall’attaccamento.
Per questo è possibile notare un’importante similitudine tra i koan e i quadri di Magritte – quasi dei koan dipinti. Se tuttavia nel primo caso il mistero e il paradosso sono volti al raggiungimento dell’illuminazione, non sapremo mai per certo quale fosse lo scopo di Magritte: probabilmente l’accettazione di una definitiva mancanza di significato e l’esistenza del solo mistero. Anche questa, in effetti, una sorta di illuminazione.
NOTE:
1, 2 – A. Blavier, René Magritte. Scritti, vol II, Abscondita, Milano 2005, p. 193, p. 250.
3 – Si propone la traduzione di Paolo Pagli.