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Zabriskie Point: 50 anni dall’insuccesso di Antonioni

Uscito nel marzo 1970, clamoroso insuccesso a livello di botteghino, di pubblico e di critica, Zabriskie Point fu additato di mistificazione, vaghezza e semplicismo. Particolarmente dura fu la critica americana che accusò Antonioni di aver rappresentato l’America da europeo, a mo’ di «un provinciale che punta al grandioso», e di essere scaduto in un erotismo che rasenta la comicità involontaria. «Non sono un sociologo, il mio film non è un saggio sugli Stati Uniti ma si situa al di sopra dei problemi precisi, particolari di quel Paese. Ha essenzialmente un valore etico e poetico»: questa la risposta del regista ferrarese alle numerose critiche negative sul suo primo lungometraggio girato negli States, secondo film, dopo Blow Up (1968), girato in lingua inglese per la Metro-Goldwyn-Mayer. Più articolata la critica italiana divisa tra chi apprezzava il carattere sperimentale e poetico dell’opera, come Micciché, e chi invece, come Mereghetti, riteneva l’interpretazione del ribellismo giovanile «enfatica e fasulla».

Cinquant’anni dopo Zabriskie Point credo possa essere considerato un cult, un film emblema della rivoluzione dei costumi e delle contestazioni studentesche degli anni Settanta : road movie e storia d’amore in piena rivoluzione culturale, sullo sfondo il paesaggio della Death Valley e le note dei Pink Floyd. Nel deserto, simbolo dell’America non inquinata dal post-capitalismo delle grandi multinazionali, due rivoluzionari giovani e liberi, interpretati dai bellissimi e esordienti Mark Frechette e Daria Halprin, si fondono ripetutamente tra di loro e con la natura fino a una scena di amore la cui intensità del momento è resa dal regista con il moltiplicarsi delle coppie coinvolte e cui la Commissione per la revisione cinematografica impose diversi tagli.

Attraverso dialoghi scarni che accrescono il valore estetico delle immagini il film si scinde tra reale e onirico, opponendo alla metropoli californiana di Los Angeles il deserto di Zabriskie Point, alla società oppressiva il silenzio della natura e al destino di Daria quello di Mark. Dopo la passione travolgente sbocciata nella Death Valley, Mark, che, ribelle e temerario, aveva dichiarato di chiamarsi Karl Marx, coinvolto nell’assassinio di un poliziotto e in fuga a bordo di un aeroplano da turismo rubato, viene ucciso, Daria, invece, studentessa che lavora saltuariamente come segreteria e ha una relazione con il suo capo, fuggita verso il deserto in macchina, è ancora incasellata nell’alienazione della società, dove fa ritorno mentre apprende alla radio la notizia della morte del suo giovane amante.

Daria come Vittoria (interpretata da Monica Vitti) di L’eclisse (1962) è simbolo dell’estraniamento di chi non riesce a trovare il proprio posto nel mondo moderno di banche e macchine, in una realtà non più interpretabile e i cui ideali sono stati distrutti dal post capitalismo che lascia gli individui soli con loro stessi vaganti tra freddi paesaggi che non appartengono loro. La modernità appare agli occhi di Daria priva di ideali e falsa, ovattata e platinata, rispetto ai colori soffusi e naturali del deserto, fino ad immaginare nella sublime scena finale un’esplosione apocalittica della villa del suo capo: sette minuti durante i quali tutto, dal cibo ai libri, dai vestiti agli elettrodomestici salta in aria.

 

Rossella Farnese

 

[immagine tratta da Pixabay]

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