Lo specismo antropocentrico sembra il peccato originale dell’essere umano. Esso consiste nel ritenere la specie umana superiore a tutte le altre specie, moralmente come intellettualmente, così che le seconde sono mere risorse a disposizione della prima.
In una prima fase, combattere questa forma di discriminazione ha comportato la rivendicazione di diritti animali, ma oggi si denuncia anche lo specismo zoocentrico: l’atteggiamento per cui, nel restituire dignità agli animali non-umani, questi sono comunque ritenuti superiori ai viventi non-animali1. Per superare pienamente ogni tipo di specismo, bisognerebbe allora considerare la questione ambientale nella sua interezza, riconoscendo per esempio anche i diritti della Terra – con tutte le difficoltà concettuali e giuridiche del caso2. Occorrerebbe cioè vedere ogni essere non umano – siano galline, querce o funghi (oppure pietre, robot o avatar) – come portatore di una dignità intrinseca, legata alle sue qualità costitutive. La forma di vita di – poniamo – una zanzara andrebbe rispettata non per ciò che la rende simile alla nostra, bensì in quanto tale. La zanzara soffre non semplicemente “come noi”, ma proprio “a modo suo”: questo darebbe sostanza al suo status morale.
Apparentemente, ammettere idee del genere è difficile perché non intendiamo rinunciare ai privilegi ormai consolidati della nostra specie. Non vogliamo venire detronizzati, perdendo i titoli nobiliari che soltanto noi riteniamo di poter meritare: il nostro irremovibile antropocentrismo sembra impedirci di rispettare in senso pieno le altre specie. Siamo però sicuri che la ragione sia necessariamente questa? E se invece l’ostacolo fosse che temiamo di dovere soddisfare realmente tutti quei diritti acquisiti di cui amiamo fregiarci sulla carta? Forse, usiamo lo specismo come maschera per nascondere la nostra paura di essere fino in fondo antropocentrici e per continuare a esserlo soltanto per finta.
L’affermazione è certamente provocatoria, ma lasciatemi spiegare.
Immaginiamo di accogliere fino in fondo la sfida di mantenere i più alti standard morali persino nei confronti di esseri ritenuti tanto fastidiosi come le zanzare, non torcendo loro una zampa nemmeno quando stanno pungendoci. A quel punto, se davvero volessimo tener fede al nostro antropocentrismo, o dare prova di essere quantomeno “antropo-sensibili”, dovremmo mantenere standard altrettanto elevati con (tutti) gli esseri umani, anche considerando che con essi condividiamo molto di più rispetto alle zanzare, in termini biologici come culturali. Le vite umane ci risultano più interessanti di quelle zanzaresche, nel senso letterale dell’inter-esse: siamo invischiati in esse in una maniera decisamente più coinvolta e partecipe. Perciò, se prendiamo a cuore le sorti delle zanzare, come potremmo poi maltrattare gli altri membri della nostra specie? Dopo aver messo l’asticella morale tanto in alto rispetto ai nostri eterospecifici, sarebbe incoerente riabbassarla con i nostri conspecifici.
Se a una zanzara si concede uno status morale, fosse anche solo nominalmente, non ci sono più scuse per non mostrare effettiva considerazione per le condizioni del rider che consegna i pasti e del migrante che raccoglie nei campi i prodotti per cucinarli. La scappatoia più rapida per non affrontare questioni del genere è bollare come insensato, o radical chic, ogni discorso antispecista: non mi curo della zanzara per evitare di curarmi del rider. Il punto è che estendere il nostro senso di giustizia oltre il dominio umano comporta una sfida strutturale ai valori intorno a cui organizziamo le nostre società3, sollecitandoci per esempio a valutare la possibile esistenza di un legame diretto tra i meccanismi di sfruttamento extraspecifici e i dispositivi di oppressione intraspecifici, come il patriarcato e il razzismo4.
Anche volendo considerare simili diagnosi sistemiche troppo affrettate, rimane ugualmente il fatto che problematizzare lo specismo ci obbliga a fare i conti con le nostre ipocrisie, costringendoci per assurdo a essere fino in fondo antropocentrici, senza sconti ed eccezioni. Infatti, essere antropocentrici “senza se e senza ma” comporterebbe smettere di esserlo a corrente alternata, cioè in maniera selettiva con determinate categorie di umani piuttosto che altre. Un antropocentrismo integrale dovrebbe dismettere ogni forma di “auto-centrismo” che pone all’apice della considerazione morale il gruppo umano in cui più immediatamente ci si riconosce, per mettere invece al centro gli esseri umani senza distinzioni di sorta. Un genuino antropo-centrismo non può limitarsi a essere un maschio-centrismo, un bianco-centrismo, ricco-centrismo, e così via.
Insomma, se proprio vogliamo essere specisti, cerchiamo di esserlo per davvero.
NOTE
1. Vedi p.e. E. Coccia, La vita delle piante, il Mulino, Bologna 2018; M. Di Paola, G. Pellegrino, Etica e politica delle piante, DeriveApprodi, Roma 2024.
2. Vedi p.e. B. Ladwig, Diritti morali della Natura?, in “Micromega”, n. 3, 2022, pp. 69-86.
3. Vedi p.e. Nussbaum, Giustizia per gli animali, il Mulino, Bologna 2023.
4. Vedi p.e. Adams, The Sexual Politics of Meat, Bloomsbury, London 2010.
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